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Sia dunque concesso ad un gio- vane scrittore, adoratore dell'epoca sua, prendere un ora di riposo nello studio della vita — gli si lasci dare un addio alle vecchie forme poetiche, scrivendo un libro d' im- maginazione e di sogno, Napoli, Novembre, 1880, MATILDE SERAO LA STORIA DELLA LEGGENDA LA STORIA DELLA LEGGEHDA. -/i//ora, quando comincia la -storia spirituale della leggenda, io aveva di- ciassetle anni^ ero una moUo^ povera fanciulla e una mollo infelice alutina della Scuola Normale femminile. Non penai, però, V amica lettrice, a nulla di luguWe: 2^oiché non ri è 'nessuna tristezza ad esser povei^i^ quando si è molto giovani: e, non so come^ io ne traeva argomento di una costante al^ legrezza. In quanto alla mia infelicità come alunna^ essa era, piuttosto^ la IV LA STORIA inf elicila dei miei prof esseri. Di fatti, a parie l* immancabile dieci che spet- tava sempre alla forsennata e puerile rettorica dei miei componimenti di lingua italiana, era impossibile^ non a me, ma ai miei sventurati maestri darmi più di sette od otto, volendo adoperare la più misericordiosa in- dulgenza. Racconto questo, per dimo- strare che allora^ sedici anni fa, io non aveva neppure il più lontano de- siderio, né la più lontana inclinazione a diventare un qualunque o^onista dei fatti umani, giornalista o novelliere. Come tante altre mie buone compagne di scuola — cosi dolci nella memoria, i nomi vostri^ care creature! — avrei strappato, non senza forti difficoltà, il diploma di grado superiore: dopo, avrei fatto V esame di concorso, altra tremenda pietra d* inciampo e sarei DELLA LEGGENDA. diventata, se il Dio della pedagogia mi aiutava, maestra elementare, in una prima classe infe^Hore. Ancora una volta, ciò non mi affliggeva a/*- fatto: e la gran risata clamorosa ri- suonava sempre, nel tetro corridoio della Scuola Normale, come nella piccola casa della Madonna dell' Aiuto, inesauribilmente, quasi che fossi stata messa al mondo per ridere a cuore aperto, contro ogni malinconia, contro ogni profonda tristezza. La caPa mam- ma diceva sempre che ella, rientrando à casa , mi udiva ridere da santa Maria la Nova: e che ciò la con forg- iava. Tu lo sapevi , o mamma , che io rideva per farti sorridere! Eppure, allora, proprio allora, in queir ambiente non solo borghese, ma di assai piccola borghesia, senza avere pel capo una sola romanticheiHa, e sefi^ VI LA STORIA z*avere nel cuore una sola delle prò- fonde mestizie donde germina il lavoro di arle^ chiedendo al destino solo V umile e faticoso modo di aiutare la propria famiglia e sé stessa, senza sogni, senza visioni, fra i tormenti della radice terza e le torture della inaci^hina di Atwood, la storia della leggenda è princi2nata. Abitavamo in quella sin- golare regione popolana di Napoli, che è limitala da santa Maria la Nova, dal vico Mezzocannone, dal Gesù e dai Mercanti: bizzarra regione, niente fantastica, niente romantica, che contiene le piazze della Madonna dell'Aiuto, dei Banchi Nuovi e di aan Giovanni Maggiore, e i cupi vicoli di Donnalbiìia, dell' Ecce-Homo , di san Girolamo alle Monache, e la bizzan^is'- sima discesa di santa Barbara e la via di santa Chiara , fra claustrale DKLLA LEGGENDA. VII e borghese. La regione dei fàbbricaìUi di grossolani mobili^ dove si sono arric^ chili i Pisciotta e i Troise, celebri nelV ammobigliamento delle modeste case di Naiìoli e di provincia: la re- gione degli scultori e pittori di santi^ dove, in fondo alle nere botteghe ap- pariva la delicata figura di un'Assun- zione con una guancia rosea e l'altra cerea, non ancora dipinta^ appariva Vemacialo volto di un san Francesco di Assisi e forse più di un ignoto -4- lonzo Cano si nascondeva in quelle nere botteghe, dove si facevano i santi! Regione popolana e pure mistica con le sue dodici chiese, con le sue sette cappelle, con le sue processioni in-* terne, diciamo cosi, perchè da una piazza a un'altra: regione di grandi palazzi antichi^ stemìnati e di pic- cole, ignobili case moderne, pienissime vili LA STORIA di gente, da soffocare: regione anche 'poveramente e malinconicamente tur- pe, verso la Posta^ verso i Mercanti, verso Mezzocannone: regione sporca^ sporchissima, ant* igienica, senz^aria, senza sole; cioè, il sole vi era soltanto sulle terrazze e noi ogni tanto, ci crea^ vamo una fe^ta speciale, se potevamo avere la chiave di un terrazzo, nostro^ di una nostra vicina. Non facevamo che metterci al sole, lassù, cinque o sei fanciulle, lavorando all'uncinetto e ri^ petendo le quattro leggi dell' educa- zione.... quali sono? Due, ine ne ram^ m^ento: armonia, convenienza... e poi? Quanto sole, su quelle terrazze! IH lassù, 'noi vedevamo la gran regione oscura e sporca, triste tanto e intanto cosi cara a noi, e fiochissime ci ann- vavano le voci popolane dei venditori: e ci sembra*^a che il sole fosse così DELLA Li:r.■— ■■■É«IMBBB»J ^^ „, — ~_ ■- l-IJ»l»»l ■ ■■■■■ nostre leggende sono V amore. E Na- poli è stata creata dair amore. * « Gimone amava la fanciulla greca. Invero ella era bellissima : era V im- magine della forte e vigorosa bellezza, che ebbero Giunone e Minerva, cui veniva rassomigliata. La fronte bassa e limitata di dea, i grandi occhi neri, la bocca voluttuosa, la vivida candi- dezza della carnagione, lo stupendo accordo della grazia e della salute, in un corpo ammirabile di forme, la composta serenità della figura, la ren- devano tale. Si chiamava Parthenope, che nel dolce linguaggio greco, signi- fica: Vergine. Ella godeva sedere sul- r altissima roccia, fisando il fiero sguardo sul mare, perdendosi nella contemplazione delle glauche lonta- PARTHEXOPE. 9 nanze dell' Ionio. Non si curava del vento marino che le faceva sventolare il peplo, come ala di uccello spaven- tato ; non udiva il sordo rumore delle onde che s'incavernava sotto la roccia, scavandola a poco a poco. L'anima co- minciava per immergersi in un pen- siero; oltre quel mare, lontano, lontano, dove r orizzonte si curva, altre re- gioni, altri paesi, T ignoto, il mirabile, r indefinibile. In questo pensiero la fantasia della fanciulla si allal^gava, si allargava in un sogno senza confine, la fanciulla sentiva ingrandire la po- tenza del suo spirito e, sollevata in piedi, le pareva di toccare il cielo col capo, di potere stringer nel suo im- menso amplesso tutto il mondo. £ an- che questi sogni svaniscono. Ora ella ama Cimone, con 1' unico, possente, imperante amore della fanciulla che si trasforma in donna. 10 PARTHENOPE. Nella notte di estate, notte bionda e bianca di estate, Cimone parla al- r amata : — Parthenope, vuoi tu seguirmi ? — Partiamo, amore. — Tuo padre ti rifiuta al mio ta- lamo, soavissima : Eumeo vuole per tuo sposo e suo figliuolo. Ami tu Eu- meo? — Amo te, Cimone. — Lode a Venere santa e grazie a te, sua figliuola! Pensa dunque quale nero incubo sarebbe la vita, divisi, lontani — e come, giovani an- cora, aneleremmo alle cupe ombre dello Stige. Vuoi tu partire meco, Parthenope ? — Io sono la tua schiava, amore. — Pensa: dimenticare il volto di tuo padre, cancellare dalle tue guancia PARTHENOPE. 1 1 il bacio delle sorelle, fuggire le dolci amiche, abbandonare il tuo tetto... — Partiamo, Ci mone. — Partire, o dolcissima, partire per un viaggio lungo, penoso, sul mare traditore, per una via ignota, ad una meta sconosciuta; partire senza spe- ranza di ritorno; affidarsi ai flutti, sempre nemici degli amanti ; partire per andare lontano lontano, molto lontano, in terre inospitali, brune, dove è eterno T inverno, dove il pal- lido sole si fascia di nuvole, dove r uomo non ama V uomo, dove non sono giardini, non sono rose, non sono templi.... Ma nei grandi occhi neri di Par- thenope, è il raggio di un amore in- superabile e nella sua voce armoniosa vibra la passione : — Io t'amo — ella dice — par- tiamo. 12 PARTHENOPE. Sono mille anni che il lido imbal- samato li aspetta. Mille primavere hanno gittata sulle colline la ric- chezza inesausta, rinascente, della loro vegetazione — e dalla montagna sino al mare, si spande il lusso im- menso, sfolgorante di una natura me- ravigliosa. Nascono i fiori, olezzano, muoiono, perchè altri più belli sfo- glino i loro petali sul suolo ; milioni e milioni di piccole vite fioriscono, anche esse per amare, per morire, per rinascere ancora. Da mille anni attende il mare innamorato, da mille anni attendono le stelle innamorate. Quando i due amanti giungono al lido divino, un sussulto di gioia fa fremere la terra, la terra nata per V amore. Che senza amore è destinata a perire. PARTHENOPE. 13 abbruciata e distrutta dal suo desi- derio. Parthenope e Ciraone vi por- tano l'amore, Dapertutto, dapertutto, essi hanno amato. Stretti V uno al-* V altra » essi hanno portato il loro amore sulle colline, dalla bellissima, eternamente fiorita di Poggioreale, alla stupenda di Posilipo; essi hanno chinato i loro volti sui crateri in- fiammati , paragonando la passione incandescente della natura, alla pas-* sione del loro cuore; essi sileno per- duti per le oscure caverne, che rende- vano paurosa la spiaggia PlcUamonia; essi hanno errato nelle vallate profonde, che dalle colline scendevano al mare; essi hanno percorso la lunga riva, la sottile cintura che divide il mare dalla terra. Dovunque, hanno amato. Nelle stellate notti di estate, Parthenope si è distesa suirarena del lido, fissando lo 14 PARTHENOPE. Sguardo nel cielo, carezzando con la mano la chioma di Cimone, che è al suo fianco; nelle lucide albe di pri- mavera, hanno raccolto, nel loro splen- dido giardino, fiori e baci, baci e fiori inesauribili; ne' tramonti di porpora dell' autunno, nella stagione che de- clina, hanno sentito crescere in essi più vivo l'amore ; nelle brevi e belle giornate invernali, hanno sorriso senza mestizia, pur anelando alla novella primavera. La pianta secolare ha prestata la sua ombra benevola, a tanta gioventù; la contorta e bruna pietra dei Campi Fiegreì, non ha lacerato il • gentil piede di Parthenope; il mare si è fatto bonario ed ha cantato loro la canzoncina d'amore; la natura leale non ha 'avuto agguati per essi; sugli azzurri orizzonti si è delineato il profilo bellissimo della fanciulla, il profilo PARTHBNOPE. 15 energico del garzone. Quando essi si sono chinati ed hanno baciato la terra benedetta, quando hanno alzato lo sguardo al cielo, un palpito ha loro risposto e fra Tuomo e la natura si è affermato il profondo , T invincibile amore che li lega. Napoli, la citta della giovinezza, invocava Parthenope e Cimone: ricca, ma solitaria; ricca, ma mortale; ricca ma senza fremiti. Parthenope e Cimone hanno creata Napoli immortale. Ma il destino non è compito ancora. Più alto scopo, ha Tarnore di Parthe- nope. Ecco: dalla Grecia giunsero, per amor di lei, il padre e le sorelle, e amici e parenti che vennero a ri- trovarla; ecco: sino al lontano Egitto, sino alla Fenicia, corre la voce, mi- steriosa di una plaga felice, che una vergine ha scoperta, una plaga felice 16 PARTHENOPE. dove nella bella festa dei fiori e dei frutti, nella dolcezza profumata del- l' aria, trascorre beatissima la vita. Sulle fragili imbarcazioni accorrono colonie di popoli lontani che portano seco loro i figliuoli, le immagini degli dèi, gli averi; alla capanna del pastore si erge accanto quella del pescatore; la rozza e primitiva arte dell'agricol- tura, le industrie manuali appena sul nascere, compiono fervidamente la loro opera. Prima sorge sull'altura il villag- gio, e grado a grado guadagna la pia- nura; un'altra colonia se ne va sopra un'altra collina, ed il secondo yillagio si unisce col primo; le vie si tracciano, la fabbrica, delle mura cui tutti con- corrono, rinserra nel suo cerchio, una città. Tutto questo ha fatto Parthenope. Lei volle la città. Non più fanciulla, ma ora donna completa e perfetta PARTHEXOPE. 17 madre : dal suo forte seno dodici figliuoli hanno vista la luce, dal suo forte cuore è venuto il consiglio, la guida, il soffio animatore. É lei la donna per eccellenza, la madre del popolo, la regina umana e clemente, da lei si appella la città, da lei la l^SS^» da lei il costume, da lei il costante esempio della fede e della pietà. Due templi sorgono a dèe, in- vocate protettrici della città: Cerere e Venere. Ivi si prega, ivi, attraverso gli intercolunni, sale al cielo il fumo dell' olibano. Una pace profonda e costante è nel popolo, su cui regna Parthenope; ed il lavorio operoso deiruomo, non è che un affettuoso invito alla natura benigna. La più bella delle civiltà, quella dello spirito innamorato; il più grande dei senti- menti, quello deir arte ; la fusione 2 — htnmiit SaptiUUmt. 18 PARTHENOPE. deirarmonia fisica con rarmonia mo- rale; Tamore efficace, fervido, onni- possente : è Tambiente vivificante della nuova città. Quando Parthenope viene a sedere sulla roccia del monte Ecbia, quando essa fissa lo sguardo sul Tir- reno, più fido deir Ionio, l'anima sua si assorbisce in un pensiero. La regione ignota è raggiunta, il mirabile, V in- definibile, ecco è creato, è reale, è opera sua. E mentre la fantasia si allarga in un sogno senza confine, Parthenope sente giganteggiare il suo spirito e sollevata in piedi, le pare di toccare il cielo col capo, di stringere il mondo in un immenso amplesso. Se interrogate uno storico, o buoni ed amabili lettori, vi risponderà che la tomba della bella Parthenope è sull'altura di San Giovanni Maggiore, PARTHENOPE. 19 dove, allora, il mare lambiva il piede della montagnola. Un altro vi dirà che la tomba di Partbenope è suIPal- tura di Sant' Anielio, verso la campagna, sotto Gapodimonte. Ebbene, io vi dico che non è vero. Partbenope non ha tomba, Partbenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi, ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. É lei, che rende là nostra città ebbra di luce e folle di colori; è lei, che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei, che rende irresi- stibile il profumo deir arancio ; è lei, che fa fosforeggiare il mare. Quando nelle giornate deir aprile, un' aura calda e' inonda di benessere, è il suo alito soave; quando nelle lontananze verdine del bosco di Gapodimonte, 20 PARTHENOPE. vediamo comparire un'ombra bianca allacciata ad un'altra ombra, è lei, col suo amante ; quando sentiamo nell'aria un suono di parole innamorate, è la sua voce che le pronunzia; quando un rumore di baci, indistinto, som- messo, ci fa trasalire, sono i baci suoi ; quando un fruscio di abiti ci fa fre- mere, al memore ricordo, è il suo peplo che striscia sull'arena, è il suo piede leggiero che sorvola; quando^ di lon* tano, noi stessi ci sentiamo abbruciare alla fiamma di una eruzione spaven- tosa, è il suo fuoco che ci abbrucia. É lei, che fa folleggiare la città: elei, che la fa languire ed impallidire di amore: è lei, che la fa contorcere di passione nelle giornate violente dello agosto. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non muore, non ha tomba, è immortale, è l' amore, Napoli è la città dell'amore. VIRGILIO MAGO. vjggi, domenica, festa degli Ulivi, Cristo entra in Gerusalemme, portando in mano il ramoscello della pace. Oggi, buon lettore, si fa la pace. Vi è chi ha litigato con Tamico e chi con l'in- namorata: vi è chi ha litigato con la persona indifferente, chi con quella che odia, chi con quella che ama di più: l'impiegato ha litigato col suo capo d'ufficio, il marito con la moglie, l'artista ha detto molti improperi al- l' arte, lo scrittore si è accapigliato con la forma, il portinaio ha litigato 24 VIRGILIO MAGO. col padron di casa. Tutti sono in bizza con qualcuno. Ma oggi una fogliolina, un ramoscello di olivo e la pace è fatta. Anche io, ho litigato e da tanto tempo, con una carissima persona, mentre ho continuato ad amarla pie- namente, nel segreto del cuore, men- tre la sua assenza ha resa deserta e triste la mia casa, mentre la mancanza del suo alito soave, ha reso arido e secco come la pomice quanto ho scritto. Questa carissima persona, la Poesia, è da tempo che non vuole saperne di me, quando io la desidero ardente- mente, e per orgoglio mi taccio. Oggi che Torgoglio si smorza in una infinita tenerezza, voglio tentare di far la pace con la poesia, mandandole una foglio- lina di ulivo. • • VIRGILIO MAGO. 25 Dopo Parthenope , mito e donna , vergine e sirena, misto singolare di fantastico, di ideale, di umano e di divino, cui Napoli deve la sua poetica * origine; dopo la poesia di Parthenope, la semidia, creatrice, sorge la poesia tlicendo che noi non conoscevamo Virgilio Mago. Non vi è che un solo Virgilio: colui che la favolosa cronaca delinea nelle ombre della magia, è proprio il poeta. Invero, egli non ha avuto che una magia sola : la grandiosa poesia del suo spirito. Nella cronaca è il poeta. Il poeta con le sue lunghe pere- grinazioni, per quella orrida, bella e 8 ~ tAggtnde XapoUtane, 34 VIRGILIO MAGO. straziata campagna dei Campi Fle- grei, dove egli fantasticava dell' A- verno e dello Stige ; con le sue lunghe peregrinazioni nella Campania Felice, dove egli ha acquistato queir amore profondo della natura , T amore dei campi ubertosi che si stendono all'in- finito sotto il sole, dei prati verdeg- gianti, dove pascola quietamente il bove dai grandi occhi nei quali il cielo si riflette, l' amore dei boschi oscuri e silenziosi dove V anima si calma e si assopisce nella pace, l'amore dei colli aprichi, dove i liberi venti fanno on- deggiare tutta una vegetazione di fiori; l'amore dell'uccello che canta e vola via, dell'insetto dorato che ronza, della foglia che il turbine si porta, della forte quercia che nulla scuote: quell'amore profondo della natura, che è il sentimento più alto del suo poema, VIRGILIO MAGO. 35 che è la magia per cui ancora e' in- canta, che è — con una parola troppo uQoderna, ma vera — la nostalgia del suo cuore, che lo fa esclamare,... « for- tunatos agricolas, » che dà alla sua descrizione tanto colore, tanta luce, tanta vita. É il poeta che cerca ed interroga ogni angolo oscuro della natura ; è il poeta che parla alle stelle tremolanti di raggi nelle notti estive ; è il poeta che ascolta il ritmo del mare, quasi fosse il metro per cui il suo verso si scandisce; è il poeta che co- nosce la virtù dei semplici , che ha scoverte certi leggi naturali, ignote a tutti; è il poeta civile che uccide le bestie, fa rasciugare le paludi e fa sorgere a quel posto palagi e giar- dini; è il poeta che insegna ai gio- vani i giuochi dove il corpo si fortifica e Tanirna si serena; è lui, sublime 36 VIRGILIO MAGO. fantastico, che stabilisce l'augurio della buona e della mala ventura; è lui che come calamita fortissima , attrae a sé l'amore, T ossequio, il rispetto; è lui solo il buono, il veritiero, il saggio. Virgilio Mago è Virgilio poeta. E nulla si sa della sua morte. Come Parthenope, la donna, egli scompare. Il poeta non muore. IL MARE. *rv^ V oi errate lontana di qua, anima set- tentrionale e vagabonda, e le brume in cui si affissa il vostro malinconico occhio, vi mettono intorno qlieir am- biente monotono e triste in cui si quieta ogni agitazione. Ma nelle tran- quille divagazioni, dove il vostro spi- rito amareggiato si disacerba, nella sorridente mestizia che aleggia in quello che scrivete , io veggo ogni tanto una esclamazione vivace. Voi non avete dimenticato il nostro mare, il nostro bel mare di Napoli. Ancora 40 ' IL MARK. vi appare e scompare, rapidissima, in- nanzi agli occhi una visione azzurra; ancora un molle suono, quasi indistinto e fuggente, vi lusinga V orecchio ; un profumo sottile come un ricordo lon- tanissimo .« vi fa dilatare le nari. II mio bel golfo, voi non lo avete di- menticato. Io leggo quello che scri- vete, ma indovino quello che pensate. Dovete soffrire di una segreta nostal- gia, che non osate confessare, voi, esi- liato volontario. E come V eco dolo- rosa si ripercuote sul mio fedele e forte cuore d' amica , cosi io rispon- derò a quello che nascondete , invece che a quello che palesate, e vi nar- rerò, non la storia, ma la leggenda del mio poetico golfo. « « Ogpuno sa che Iddio, generoso, mi- IL MARE. 41 sericordioso e magnifico Signore , ha guardato sempre, con un occhio di predilezione, la città di Napoli. Per lei ha avuto tutte le carezze di un padre , di un innamorato , le ha pro- digato i doni più ricchi, più splendidi che si possano immaginare. Le ha dato il cielo ridente ed aperto, rara- mente turbato da quei fuuesti pen- sieri scioglientisi in lagrime, che sono le nubi ; 1' aria leggiera , benefica e vivificante, che mai non diveirta troppo rude, troppo tagliente ; le colline verdi, macchiate di case bianche e gialle , divise dai giardini sempre fioriti ; il vulcano fiammeggiante ed appassio- Dato; gli uomini belli, buoni, indolenti, artisti ed innamorati; le donne pia- centi , brune , amabili e virtuose ; i fanciulli ricciuti, dai grandi occhi neri ed intelligenti. Poi» per suggellare 42 IL MARE. tanta grazia, le ha dato il mare. Ma si soggiunge che il Signore Iddio, dandole il mare , ha saputo quel che si faceva. Quello che sarebbero i Na- poletani, quello che vorrebbero , egli conosceva bene, e nel dar loro la fé* licita del mare, ha pensato alla felicità di ognuno. Questo immenso dono h saggio, è profondo, è caratteristico- Ogni bisogno, ogni inclinazione, ogni pensiero, ogni libra, ogni fantasia, trova il suo cantuccio dove s'appaga: il suo piccolo mare nel grande mare» Del passato, dell' antichissimo pas- sato, è il mare del Carmine. Poco di- stante dalla spiaggia, è l'antica porto di mare^ che introduce alla piazza^ sulla piazza storicamente famosa, si IL MARE. 43 eleva il bruno campanile , coi suoi quattro ordini a finestruole, che lo fanno rassomigliare stranamente al giocattolo grandioso di un bimbo gi- gante; le casupole, attorno, sono basse, meschine, dalle finestre piccole, abitate da gente minuta. Il mare del Carmine è scuro, sempre agitato, continua- mente tormentato. Sulla spiaggia, se- mideserta, non vi è V ombra di un pescatore. Vi si profila qua e là la liùea curva di una chiglia ; -la barca è arrovesciata , si asciuga al sole. Di- nanzi alla garitta passeggia un do- ganiere, che ha rialzato il cappuccio per ripararsi dal vento che vi soffia impetuoso. Presso la riva una barcac- cia nera, stenta a mantenersi in equi- librio; dal ponte, per mezzo di tavole, è stabilita una comunicazione con la terra ; vi vanno e vengono facchini , 44 IL MARK. curvi sotto i mattoni rossi che scari- cano a riva. Ma non si canta, né si grida. Il mare del Carmine nonischerza. In un temporale d' estate, portò via un piccolo stabilimento di bagni ; in un temporale d' inverno allagò la Villa del Popolo , giardino infelice , dove crescono male fiori pallidi e alberetti rachitici. Qualche cosa di solenne, di maestoso vi spira. Il mare del Carmine era V antico porto di Parthenope, dove approdavano le galee fenicie, greche e romane , ma era porto mal sicuro; esso ha visto avvenimenti saùguinosi e feste popolari. É un mare storico , poetico e cupo. Sulla piazza che quasi esso lambiva , dieci , venti volte sono state decise le sorti del popolo napo- letano. Le onde sue melanconiche hanno dovuto mormorare per molto tempo : Corradino, Corradino. Le onde IL MARE. 45 sue tempestose, hanno dovuto ruggire per molto tempo : Masaniello , Masa- niello. É il mare grandioso e triste de- gli antichi , che sgomenta le coscienze piccine dei moderni. La sola voce del flutto rompe il silenzio che vi regna e qualche coraggioso, solitario e meditabondo spirito vi passeggia, curvando il capo sotto il peso dei ricordi, fissando T occhio sulla vita di quelli che furono. Ma lerve la gente e ferve la vita sul mare del Molo. Non è spiaggia, è porto quieto e profondo. L'acqua non ha onde , appena 8' increspa ; è nera , a fondo di carbone, un nero uniforme e smorto , dove nulla si riflette. Sulla superflcie galleggiano pezzi di legno, 46 IL MARE. brandelli di gomene, ciabatte sformate e sorci morti. Nel porto mercantile si stringono , P una contro T altra , le barcaccie, gli schooners, i brigantini carichi di grano, di farina, di car- bone , d' indaco ; non vi è che una piccola linea d'acqua sporca, tra essi. Sul marciapiede una grue eleva nel- r aria il suo unico braccio di ferro , che s' alza e s' abbassa, con uno stri- dore di lima. Uomini neri di sole, di fatica e di fumo , vanno , vengono e discendono. Un puzzo di catrame è neir aria. Sulla banchina nuova, nel terrapieno, sono infissi cannoni a cui s'attorcigliano intorno grossissime go- mene, che danno una sicurezza mag* giore ai vapori postali, ancorati in rada. A destra e' è il porto militare, medesimo mare smorto e sporco, dove rimangono immobili ie corazzate. Dap- IL MARE. 47 pertutto barchette che sfilano, zattere lente, imbarcazioni pesanti ; le voci si chiamano, si rispondono, s' incrociano. Il sole rischiara tutto questo, facendo brulicare nel suo raggio polvere di carbone, atomi di cotone, limature di ferro ; la sera, T occhio del faro sor- veglia il Molo. Il mare del Molo è quello dei grossi negozianti, dei grossi banchieri, degli spedizionieri affaccen- dati, dei marinai adusti, degli uflFiciali severi che corrono al loro dovere, dei viaggiatori d' attari che partono senza un rimpianto. É per essi, che il Si- gnore ha fatto il lago nero del Molo. Del popolo e pel popolò è il mare di Santa Lucia. É un mare azzurro- cupo, calmò e sicuro. Una numerosa 48 IL MARE, e brulicante colonia di popolani, vive su quella riva. Lo donne vendono lo spassatiempo^ Tacqua sulfurea, i polipi cotti neir acqua marina ; gli uomini intrecciano nasse, fanno reti, pescano, fumano la pipa, guidano le barchette, vendono i frutti di mai-e , cantano e dormono. É un paesagg)0 acceso e vivace. Le linee vi sono dure e salienti; il sole ardente vi spacca le pietre. Si odora un profumo misto di alga, di zolfo e di spezierie soffritte. I bimbi seminudi e bruni si rotolano nella via e cascano nell'acqua, risalgono alla superficie, scuotendo il capo .ricciuto e gridando di gioia. Sulla riva un' o- steria lunga lunga, mette le sue tavole dalla biancheria candida, dai cristalli lucidi , dair argenteria brillante. Di sera vi s' imbandiscono le cene napo- letane. Suonatori ambulanti di violino. IL MARK. 49 di chittara , di flauto improvvisano concerti ; cantatori a/Iìochiti si lamen- tano nelle malinconiche canzonette, il cui metro è per lo più lento e soave, o la cui allegria ha qualche cosa di chiassoso e di sforzato, che cela il dolore; accattoni mormorano senza line la loro preghiera ; le donne stril- lano la loro merce. Di estate un va- poretto scalda la sua macchina per andare a Casamicciola, i barcaiuoli of- frono con insistenza, a piena voce, in tutte le lingue, ai viaggiatori il pas- saggio fino al vaporetto. Dieci o dodici stabilimenti di bagni a camerini pic- coli e variopinti; si asciugano al sole, battute dal ponente, le lenzuola ; le ba- gnine hanno sul capo un fazzoletto rosso e fanno solecchio con la mano. Una fol- la borghese e provinciale assedia gli stabilimenti , scricchiolano le viottole 4 — t^eggende SajpfJehitt^. 50 IL MARE. di legno. Salgono nell'aria serena, can- ti, suoni di chitarra, trilli d'organino, strilli di bimbi, bestemmie di facchini, rotolio di trams y profumi e cattivi odori ; rifulgono i colori rabbiosi e mordenti; fiammeggiano le albe ri- flesse sul mare ; fiammeggiano i me- riggi lenti e voluttuosi, riflessi sul mare ; s' incendiano i tramonti san- guigni, riflessi sul mare che pare di sangue. E il mare del popolo, mare laborioso, fedele e fruttifero, mare amante ed amato, per cui vive e con cui vive il popolo napoletano. Eppure a breve distanza, tutto can- gia d' aspetto. Dalla strada larga e deserta, si vede il mare del Chiata- mone. La vista si estende per quel IL MARE. 51 vastissimo piano, si estende quasi al- l' infinito, poiché è iontanissinoia la curva dell'orizzonte. Quel piano d'acqua è desolato, è grigio. Nulla vi è d'az- zurro e la medesima serenità ha qual- che cosa di solitario che rattrista. Le onde si frangono contro il mura- gliene di piperno con un rumore sordo e cupo; lontano, gli alcioni bianchi bianchi ne lambiscono le creste spu-. manti. A sinistra s' eleva sulla roccia il castello aspro, ad angoli scabrosi , a finestrelle ferrate ; il castello spa- ventoso dove tanti hanno sofferto ed hanno pianto; il castello che cela il Vesuvio. Contro le sue basi di scoglio, le onde s' irritano , si slanciano pie- ne di collera e ricadono bianche e livide di rabbia impotente. Quando le nuvole s'addensano sul cielo e il vento tormentoso sibila fra i platani della 52 IL MARE. villetta, allora la desolazione è com-^ pietà 9 è profonda. Di lontano appare una linea nera: è una nave sconosciuta, che fugge verso paesi ignoti. Alla sera passa lentamente qualche barca miste- riosa che porta una fiaccola di luce sanguigna a poppa e che mette una striscia rossa nel palpito del mare : sono pescatori che incantano il pesce. In quelle acque un giovanetto nuota- tore , bello e gagliardo , vinto dalle onde , invano ha chiamato aiuto ed è morto affogato ; in una notte d'inverno una fanciulla disperata ha pronunciata una breve preghiera e si è slanciata in mare, donde V hanno tratta, orribile cadavere sfracellato e tumefatto. É il mare del Nord, con la sua mestizia, la sua vastità deserta, i suoi scogli lacerati, il metro piangente dell'onda; ò il Nord coi suoi fantasmi, con le sue IL MARK. 5:ì nebulosità. E il mare che Dio — come dice la vecchia leggenda — ha fatto per i malinconici, per gli ammalati, per i nostalgici , per gì' innamorati dell' infinito. Invece ride il mare di Mergellina ; ride nella luce rosea delle giornate stupende ; ride nelle morbide notti d' estate, quando il raggio lunare pare diviso in sottilissimi fili d' argento; ride nelle vele bianche delle sue na- vicelle, che paiono giocondi pensieri aleggianti nella fantasia. Sulla riva scorre la fontana, con un cl\elo e al- legro mormorio ; i fanciulli e le fante- sche in abito succinto vengono a riem- pirvi le loro brocche. Un yac/i/ elegante dair attrezzeria sottile come un mer- 54 IL MARE. letto, dalle velette candide orlate di rosso , si culla mollemente come una creola indolente , porta il nome a let- tore d' oro, il nome dolce di qualche creatura celestiale e bionda: Flavia, Uno stabilimento di bagni, piccolo ed aristocratico, si congiunge alla riva per una breve viottola; sulla viottola passano le belle fanciulle vestite di bianco, coi grandi cappelli di paglia coperti da una primavera di fiori, co- gli ombrellini dai colori spendidi che si accendono al sole; passano le spo- sine giovanotte, gaie e fresche, attac- cate al braccio dello sposo innamo- rato; i bimbi graziosi, dai volti ridenti e arrossati dal caldo. E nel mare, giù è un ridere, uno scherzare, un gridio fra il comico spavento e V allegria deir acqua fredda, e corpi bianchi che scivolano fra due onde e braccia ro- IL MARE. 55 tonde che si sollevano e volti bruni dai capelli bagnati. É la festa di Mer- gellina , di Mergellina la sorridente , fatta per coloro cui allieta la gioventù, cui fiorisce la salute, fatta pei giovani che sperano e che amano , fatta per coloro cui la vita è una ghirlanda di rose che si sfogliano e rinascono sem* pre vive e profumate. Ma il mare dove finisce il dolore è il mare di Posilipo^ il glauco mare che prende tutte le tinte, che si adorna di tutte le bellezze. Quanto può ideare cervello umano per figurarsi il para- diso, esso lo realizza. É V armonia del cielo, delle stelle , della luce, dei co- lori, r armonia del firmamento con la natura ; mare e terra. Si sfogliano i 5(ì IL MARE. fiori sulla sponda , canta V acqua pe- netrando nelle grotte , V orizzonte è tutto un sorriso. Posilipo è V altissimo ideale che sfuma nella indefinita e lontana linea dell' avvenire ; Posilipo è tutta la vita, tutto quello che si può desiderare, tutto quello che si può vo- lere. Posilipo è r immagine della fe- licità piena, completa, per tutti i sensi, per tutte le facoltà. È la vita vibrante, fremente, nervosa e lenta, placida ed attiva. É il punto massimo di ogni sogno, di ogni poesia. Il mare di Po- silipo è quello che Dio ha fatto per i poeti, per i sognatori,*per gì' innamo- rati di queir ideale che informa e trasforma 1' esistenza. Quando il Signore ebbe dato a noi IL MARIi:. 57 il nostro bel golfo, udite quello che la sacrilega leggenda gli fa dire: uditelo voi anima glaciale e cuore inerte. Egli disse : Sii felice per quello che t' ho dato ; e se non lo puoi , se V incura- bile dolore ti strazia 1' anima , muori nelle onde glauche del mare. LA LEGGENDA DELL'AMORE. k^j^fi^i^kS^^ in questo pomeriggio lungo di lu- gliOy un grande silenzio regna intorno; nelle vie abbruciate dal sole non passa alcuno ; ed i cittadini dormono nel pesante assopimento delP estate ; vicino, sotto la finestra, in un tegame dove bolle Tolio scuro, scoppiettano e friggono certi peperoncini verdi ed arrabbiati ; lontano, in una via tra- versale, un organino suona un wallzer languido e malinconico; un moscone ronza, e dà di testa contro i vetri più alti della finestra socchiusa. Noi 62 LA. LEGGENDA siamo tristi, ed il sangue che sale al capo, ci dà la vertigine; noi ab- biamo r anima di piombo e la bocca amara; noi abbiamo il desiderio del- l' ombra profonda e delle bevande ghiacciate — perchè, invero, ci è in- torno la violenza di una passione secca e rude, perchè ci sembra assi- stere allo spasimo e udire i singhiozzi convulsi della natura, che muore nel- r amore del sole. Le vie sono bianche, polverose e fulgide; le case gialle, rosse e bianche rifulgono ; i colli sono splendidi di luce; il mare brilla tutto, come varie migliaia di specchi ; sulla punta del cratere qualche cosa ab- brucia e fuma, ed il cielo sembra cupo nella immensa sua serenità. Tutto è luce vivida, tutto è intensità di colore, ogni tinta si condensa: pare che si deb- bano spaccar le pietre , che le case dell' amore. 63 debbano sbuzzar fuori , che le colline vogliano slanciarsi al cielo, che il ma- re voglia cangiarsi in metallo lique- fatto e che la montagna voglia eruttare lave di fuoco — e tutto rimane im- mobile , tetro e grave. E per 1' amore ; voi certamente , sapete che tutte le cose, in Napoli, dalle pietre al cielo, sono innamorate. • Non conoscete la storiella dei quattro fratelli? Io ve la narrerò. Una volta, allora, allora, nel tempo dei tempi, v' erano quattro fratelli che s' amava- no di cordialissimo amore, e che non si staccavano mai Tuno dall'altro. Era- no belli, giovani, freschi, aitanti della persona e sulle giovani teste bene s'ad- dicevano le ghirlande di rose. Ognun ()4 LA LEGGENDA di loro arse in segreto per una fan- ciulla, né se ne confidarono il nome; ma la sorte malaugurata riunì tutti gli amori dei quattro fratelli, in una donna sola. Ella, nessuno di quelli vo- leva amare. Asperrima guerra sarebbe sorta fra loro e sangue fraterno sa- rebbe stato sparso, se, una notte, la loro bella non fosse sparita per sempre. Ma essi, pazienti ed innamorati, Ta- spettano da migliaia di anni : sono cangiati in quattro colli ameni e fio- riti, che dal loro nome si chiamano di Poggioreale, di Capodimonte, di San Martino, del Vomere — e Tuno ac- canto air altro, immobilmente innamo* rati, aspettano il ritorno di colei che amano. Fioriscono le primavere sul loro capo, s' infiamma V esiate, piange l'autunno, si fa tetra la nera stagione : ed i poggi non si stancano d'aspet- DELL' AMOKK. ()5 tare. Ma T amore della bella assente è scarso , al confronto dell' amore per una bella, sempre presente e sem- pre crudele. La sapete voi, la seconda storiella? Vi fu una volta un giova- netto leggiadro e gentile, nel cui volto sì accoppiava il gaio sorriso del- l' anima innocente, al malinconico ri- flesso di un cuore sensibile : egli era, nel medesimo tempo, festevole senza chiasso e serio senza durezza. Chi lo vedeva, lo amava ; e la gente' accor- reva a lui, come ad amico, per allie- tarsi nella sua compagnia. Ma il bel giovanetto fu molto infelice , molto infelice; gli entrò nell'anima un amore ardente, la cui fiamma, che saliva al cielo, n(tn valse ad incendere il cuore della donna che egli amava. Era co- stei una donna di campagna, cui era stato dato in dono la bellezza del cor- 66 LA LEGGENDA po, ma a cui era stata negata quella deir anima: ella era una di quelle donne incantatrici, fredde e malvagie che non possono né godere, nò sof- frire. Paiono fatte di pietra , di una pietra levigata, dura e glaciale; vanno in pezzi, ma non si ammolliscono; cadono fulminate senza agonizzare. Tale era Nisida, colei che fu invano amata dal giovinetto; poiché nulla valse a vincerla. Allora lui che si chiamava Posilipo, amando invano la bella donna che viveva di faccia a lui, per isfug- gire a quella vista, che era il suo tor- mento eia sua seduzione,' decise pre- cipitarsi nel mare e finire cosi la sua misera vita. Decisero però diversa- mente i Fati e rimasto a mezz' acqua il bel giovanetto, vollero lui mutato in poggio che si bagna nel mare; ed ella é uno scoglio che gli è dirimpetto: dell' amore. 67 Posilipo, poggio bellissimo dove ac- corrono le gioconde brigate , in lui dilettandosi, Nisida destinata- ad al- bergare gli omicidi ed i ladri, che gli uomini condannano alla eterna pri- gionia — cosi eterno il premio, cosi, eterno il castigo. E vi è anche V amore che è un pro- digioso abbagliamento, un miraggio fatale , V acciecamento di colui che , ardito e folle, ha voluto fissare il sole. Era un pescatore abile e forìunato , colui di cui vi narro, e V intiero suo giorno passava fra V amo e le reti j lieto quando la pesca era abbondante, incollerito quando la tempesta che in- torbida le acque, rendeva inefficace le sue fatiche.. Era uomo semplice, e buono silenzioso ed ignorante d'amore: quando un giorno, mentre sedeva a riva ed immergeva P amo neir onda. 08 LA LEGGENDA dalle glauche acque, dinanzi a lui sorse una Ninfa marina , dal corpo bianco e provocante, dai lunghi e biondi ca- pelli che il vento sollevava, dallo sguardo verde e terso come il cri- stallo: ella cantava soavemente e le sue candide dita volavano sulla cetra. Era cosi lusinghiero, cosi attraente il suo canto che il povero pescatore senti struggersene il core non avendo più che r ardente desiderio di rag- giungere la sirena e morire. Tre volte venne a galla, tre volte scomparve nel mare — fortunato, se potette con la morte pagare cosi infinito go- dimento. Il sito dove egli precipitò, fu chiamato Mergellina, dal suo nome e dicesi ancora, che nelle fosforescenti notti d'estate, vi ricompaia la sirena. V è poi la pietosa istoria dell' a- more felice che è combattuto e vinto DELL* AMORE. GO dalla morte: una storiella ingenua, come tutte le altre. Vi si narra di un ricco signore chiamato Sebeto, che a- bitava in una campagna presso Na- poli, in un palazzo tutto di marmo. Egli per amore aveva menato in mo- glie una donna, chiamata Megara, che lo ricambiava con egual tenerezza. Egli teneva cara questa sua moglie sopra tutte le cose e profondeva per lei tutte le sue ricchezze : accadde che in un giorno ella volle andare a diporto sopra una feluca pel golfo di Napoli. Verso la riva Platamonia, dove il mare è sempre tempestoso, mentre i marinari volevano far forza contro il vento, la feluca si capovolse e Me- gara si annegò, diventando uno scoglio. Alla orribile nuova Sebeto senti spez- zarsi il cuore e per molto tempo si sciolse in amarissime lagrime, in modo 70 LA LKGGENDA che tutta la sua vita si disfece in acqua, correndo a gettarsi nel mare, dove Megara era morta. E tutte le fontane di Napoli sono lagrime : quella di Monteoliveto, è for- mata dalle lagrime di una pia, mona- chella, che pianse senza fine sulla Pas- sione di Gesù ; in quella dei Serpi sono le lagrime di Belluccia, una serva fedele innamorata del suo signore; quella degli Specchi, è fatta dalle la- grime di Corbussone, cuoco di Corte e folle d' amore per la regina cui cucinava gli intigoli; quella del Leone è il pianto di un principe napoletano, cui unico e buon amico era rimasto un leone, che gli mori miseramente; e quella di fontana Medina sono le lagrime di Nettuno, innamorato di una bella statua a cui non arrivò a dar vita. Ma la passione è neir ultima dell' amore. 71 storiella che ascolterete. Vi si parla di un nobile signore, appartenente ad uno dei primi Seggi della nostra città^ e che s' innamorò perdutamente di una fanciulla, di caaa nemica; era il cavaliere di carattere violento, di tem- peramento focoso, pronto al risenti- mento ed air ira. Pure, per ottenere la donna che amava, sarebbe diventato umile come un poverello cui manca il pane. Ma V amore dei due giovani, anziché diminuire e lenire *le collere di j)arte , valse a rinfocolarle — per preghiere ed intercessioni che venis- sero fatte, la nobile famiglia Capri non volle acconsentire al matrimonio. Anzi per trovar rimedio all'amore dei due^ fu deciso imbarcare la fanciulla so- pra una feluca e mandarla in estranea contrada. Ma essa che si sentiva strap- par r anima, allontanandosi dal suo 72 LA LEGGENDA — mim liliali iii ■■ i ■> "-- i i i r 1 1 - i l ■ bene, come fu fuori del porto, ingi- nocchiatasi e pronunziata una breve preghiera, si slanciò nelle onde, donde usci isola azzurra e verdeggiante. Ma non si chetava V amore nel core del nobile Vesuvio, quale era il nome del cavaliere e la collera gli bolliva in corpo: quando seppe della novella cru- dele, cominciò a gittar caldi sospiri e lagrime di fuoco, segno della in- terna passione che lo agitava e tanto si gonfiò, che divenne un monte nelle cui viscere arde un fuoco eterno d'a- more. Cosi egli è dirimpetto alla sua bella Capri e non può raggiungerla, e freme d' amore e lampeggia e s' in- corona di fumo e il fuoco trabocca in lava corruscante.... anime trafitte , o anime sconso- late, o voi che per T amore portate dell' amokk. 78 nel cuore sette spade di dolore , non vi sorrida la speranza di guarirvi qui. Qui amano anche le pietre : gli uomini sani s' ammalano d' amore e gli in- fermi ne muoiono. IL PALAZZO DOGiV ANNA. Il bigio palazzo si erge nel mare. Non è diroccato, ma non fu mai finito ; non cade, non cadrà, poiché la forte brezza marina solidifica ed imbrunarle mu- raglie, poiché r onda del mare non è perfida come quella dei laghi e dei fiumi, assalta ma non corrode. Le fi- nestre alte, larghe, senza vetri, rasso- migliano ad occhi senza pensiero ; nei portoni dove sono scomparsi gli sca- lini della soglia, entra scherzando e ridendo il (lutto azzurro, incrosta sulla pietra le sue conchiglie, mette Tarena 78 IL PALAZZO DOGN'ANNA. nei cortili, lasciandovi la verde elu- cida piantagione delle sue alghe. Di notte, il palazzo diventa nero, intensa- mente nero ; si serena il cielo sul suo capo, rifulgono le alte e bellissime stelle, fosforeggia il mare di Posilipo, dalle ville perdute nei boschetti, escono canti malinconici d' amore e le mo- notone note del mandolino : il pa- lazzo rimane cupo e sotto le sue vòlte fragoreggia l'onda marina. Ogni tanto, par di vedere un lumicino passare lentamente nelle sue sale e fantastiche ombre disegnarsi nel vano delle fine- stre ; ma non fanno paura. Forse sono ladri volgari che hanno trovato là un buon covo , ma la nostra splendida povertà non teme di loro; forse sono mendicanti che trovarono un letto, ma noi ricchi di cuore e di cervello, ci abbassiamo dalla nostra altezza per IL PALAZZO DOGN'ANNA. 79 compatirli. E forse sono fantasmi é noi sorridiamo e desideriamo che ciò sia ; noi li amiamo i fantasmi^ noi vi- viamo con essi, noi sogniamo per essi noi moriremo per essi, col desiderio di vagolare anche noi sul mare , per le colline, sulle roccie, nelle chiese te- tre ed umide, nei cimiteri fioriti, nelle fresche sale, dove il medioevo ha vis- suto. Fu una sera, e splendevano di luce vivida quelle finestre ; attorno attorno il palazzo, sul mare si cullavano bar- chette di piacere, adorne di velluti che si bagnavano nelP acqua, vagamente illuminate da lampioncini colorati , coronate di fiori alla poppa; i bar- caiuoli si pavoneggiavano nelle ricche livree. Tutta la nobiltà napoletana. 80 IL PALAZZO DOGN'ANXA. tutta la nobiltà spaglinola , accorreva ad una delle magnifiche feste che Tal- tiera Donna Anna Carafa, moglie del duca di Medina Goeli, dava nel suo pa* lazzo di Posilipo. Nelle sale andavano e venivano i servi, i paggi dai colori rosa e grigio, i maggiordomi dalla collana d' oro, dalle bacchette d'ebano : giun- gevano continuamente le bellissime si- gnore, dagli strascichi di broccato, dai grandi collari di merletto, donde sor- geva come pistillo di fiore la testa graziosa, dal monili di perle, dai bril- lanti che cadevano sui busti attillati e seducenti; giungevano accompagnate dai mariti, dai fratelli e qualcheduna^ più ardita , solamente dair amante. Nella grande sala, sulla soglia, nel suo ricchissimo abito rosso, tessuto a lama d' argento^ con un lieve sorriso sulla bocca, il cui grosso labbro infe- IL l'ALAZZO DOON'aNNA. SI riore s'avanzava quasi in atto di spre- gio, inchinando appena il fiero capo alle donne, dando la mano da baciare ai cavalieri Grandi di Spagna di prima classe come lei , stava Donna Anna di Medina Coeli. L'occhio grigio, dal lampo d' acciaio, simile a quello del- l' aquila , rivelava 1' interna soddisfa- zione di quell'anima fatta d' orgoglio : ella godeva, godeva senza fine nel ve- der venire a lei tutti gli omaggi, lutti gli ossequi, tutte le adulazioni. Era lei la più nobile, la più potente, la più ricca, la più rispettata , la più temuta , lei duchessa, lei signora, lei regina di forza e di grazia. Oh poteva salire glo- riosa i due scalini, che facevano del suo seggiolone quasi un trono; poteva levare la testa al caldo alito deiram- bizione appagata che le sofliava in volto. Le dame sedevano intorno a — Ijegg»'Hlt ^'ipoUtiUf 82 IL PALA.ZZO DOON' ANNA. lei, facendole corona , minori tutte di lei : ella era sola, maggiore, unica. In fondo al grande salone era riz- zato un teatrino, destinato per lo spet- tacolo. Tutta quella eletta schiera d' invitati, doveva dapprima assistere alla rappresentazione di una commedia ed a quella di una danza moresca ; poi nelle sale si sarebbero intrecciate le danze sino all'alba. Ma la grande cu- riosità della rappresentazione era che gli attori, per una moda venuta allora di Francia, apjiartenessero alla nobiltà. Donn' Anna Carafa di Medina disprez- zava i facili costumi francesi che cor- rompevano la rigida corte spagnuola, ma scrutatricc dei cuori e apprezza- zatrice del favore popolare com' era , s' accorgeva che (luelle molli usanze piacevano ed erano adottate con tra- sporto. Solo per questo ella aveva IL PALAZZO DOGN' ANNA. 83 consentito che Donna Mercede de las Torres, sua nipote di Spagna , soste- nesse una parte nella rappresentazione. Donna Mercede, giovane, bruna, dai grandi occhi lionati, dai neri capelli, le cui treccie le formavano un elmo sul capo, era una spagnuola vera. Ella rappresentava nella commedia la parte di schiava innamorata del suo padrone, una schiava che lo segue dappertutto, e lo serve fedelmente sino a fargli da mezzana d' amore , sino a morire per lui d' un colpo di pugnale, destinato al cavaliere da un padre crudele. Ella recitava con un trasporto, con un tal impeto, che tutta la sala si commuoveva, allo sventurato e non corrisposto amore della schiava Mirza: tutti si commuo- vevano salvo (Gaetano di Casapesenna che recitava la parte del cavaliere, ed egli, freddo, indilferente, inconscio, non 84 IL PALAZZO DOGN'aNNA. faceva che rimaner fedele al carattere che rappresentava. Solo, alla fine della commedia, quando la sventurata Mirza ferita a morte, s' accommiata con pa- role d'affetto da colui che fu la sua vita e la sua morte, allora, egli, cui appare finalmente la verità qual luce diffusa meridiana, preso dall'amore, s'abban- dona in ginocchio dinanzi al corpo della poveretta morente e copre di baci quel volto pallido d' agonia. In- vero, egli fu cosi focoso in tale slan- cio, cosi patetica ed improntata di do- lore la sua voce, cosi disordinato ogni suo gesto, che veramente parve supe- riore ad ogni vero attore, e parve che la verità animasse il suo spirito, sino al punto che la sala intiera scoppiò in applausi. Sola, sul suo trono, tra le sue gem- me, sotto la sua corona ducale. Don- IL PALAZZO dogn'anna. 85 nWnna impallidiva mortalDiente e si mordeva le labbra. Non era lei la più amata. Le due donne s' incontravano nelle sale del palazzo Medina; si guarda- vano, Donna Mercede fremente di ge- losia, r occhio nero covante fuoco, smorta, rodendo un freno che la sua libera anima abborriva; Donna Anna, pallida di odio, muta nella sua collera; si guardavano, impassibile e fredda Donn'Anna; agitata, e febbrile Donna Mercede. Scambiavano rade ed altere parole. Ma se la gelosia scoppiava ir- resistibile, r ingiuria correva sul loro labbro : — Le donne di Spagna sono esse le prime, ad abbandonarsi all'amante — 8G IL PALAZZO DOGN' ANNA. diceva Doiin' Anna, con la sua voce dura e grave. — Le donne di Napoli si gloriano del numero degli amanti — rispondeva vivamente Donna Mercede. — Voi siete l'amante di Gaetano Ca- sapesenna, Donna Mercede. — Voi lo foste, Donn'Anna. — Voi obÌ3liaste ogni ritegno, ogni pudore, dandoci il vostro amore a spettacolo. Donna Mercede. — Voi tradiste il duca di Medina- Goeli , mio nobile zio , Donn' Anna Carafa. — Voi amate ancora Gaetano Casa- pesenna. — Voi anche lo amate ed egli non vi ama, Donn'Anna. Vinceva la bollente spagnola e Donna Anna si consumava dalla rabbia. Sia egualmente V odio glaciale della du- IL PALAZZO DOjìN'ANNA. 87 chessa, contro cui si infrangeva ogni slancio di Donna Mercede, tormentava la spagnuola. Esse avevano nel cuore un orribile segreto ; esse portavano nelle viscere il feroce serpente della gelosia, esse morivano ogni giorno di amore e di odio. Donn'Anna celava il suo spasimo, ma Donna Mercede lo rivelava nelle convulsioni del suo spi- rito e del suo corpo. La duchessa agonizzava, sorridendo ; Donna Mer- cede agonizzava , piangendo e strap- pandosi i neri capelli. Fino a che ella scomparve d' un tratto dal palazzo Medina-Coeli e fu detto che presa da improvvisa vocazione religiosa, avesse desiderato la pace del convento e fu narrato del misticismo ond' era stata presa quell'anima, e delle lunghe eter- no giornate, passate in ginocchio di- nanzi al Sacramento, e del fervore della 88 IL PALAZZO DOGN' ANNA. preghiera e delle lagrime ardenti : ma non fu detto né il convento, né il paese, né il regno, dove era il convento. In- vano Gaetano di Casapesenna cercò Donna Mercede in Italia, in Francia, in Ispagna ed in Ungheria, invano si votò alla Madonna di Loreto , a San Giacomo di Compostella, invano pianse, pregò, supplicò. Mai più rivide la *ua bella amante , Egli mori giovane , in battaglia, quale a cavaliere sventurato si conviene. Altre feste seguirono nel palazzo Medina, altri omaggi salutarono la ricca e potente duchessa Donn' Anna; ma ella sedeva sul suo trono, con l'a- nima amareggiata di fiele , col cuore arido e solitario. • IL 1»ALAZZ0 DOGN'ANXA. 89 Quei fantasmi sono quelli degli amanti ? divini , divini fantasmi ! Perchè non possiamo anche noi, come voi , spasimare d' amore, anche dopo 4a morte? 301 IJAKCHETTA FANTASMA. s? ^=3! ^ i J-ji conosci tu ? Li conosci tu questi giorni fangosi e sporchi , quando la Noia immortale prende il colore bigio, r odore nauseante, la pesantezza op- primente della nebbia invernale, quan- do il cielo 6 stupidamente anemico, il sole è una lanterna semispenta e fu- micante, i fiori impallidiscono ed ap- passiscono , le frutta imputridiscono, le guance delle donne sembrano di cenere, la mano degli uomini pare ««■■■ IMBWB^^I^W che si videro. Nulla seppero dirsi. Pure, fra quei due esseri che si sepa- rarono senza un saluto, senza un sor- riso, un leganae indissolubile era sorto. Camminavano V uno verso 1' altro, do- vendo inevitabilmente incontrarsi. — Che fai tu alla finestra, Tecla? É un' ora che guardi nel buio, quasi vi scorgessi qualche cosa, — Guardo il mare. Hruno — rispon- deva lei con la infinita mestizia di chi comincia ad amare. — La brezza della sera ti fa male, Tecla. Tu sei pallida, come u» cada- vere. — Lasciami qui, te ne prego. — Tu sei triste, Tecla. A che pensi ? — Io non penso, Hruno. — Dimmi, chi ti rattrista ? — Nessuno può rattristarmi. — Tecla, la tua mano b gelata e JIVRCH bZTiX FANTASMA. 1 1 le tue labbra sono ardenti ; tu soffri, tu tremi, tu vacilli.... — Muoio.... Ma in una notte cupa e profonda, dopo venti notti che V insonnia tor- mentosa si assideva al suo capezzale di lagrime, Tecla senti scuotersi tutta, come se un appello possente vibrasse. — Eccomi — mormorò. E muta, rigida, con T incesso uni- forme e continuo di un automa, col lungo abito bianco che le si trasci- nava dietro come un sudario, col passo ritmico che appena sfiorava il suolo, coi lunghi capelli disciolti sugli omeri, con gli occhi spalancati nell' oscurità, ella attraversò la casa ed usci sul terrazzo che dava sul mare. Aldo era la. Ella andò a lui. Stettero a guar- darsi, neir ombra. Non un detto, non 102 BARCHETTA FANTASMA. un sospiro. L' amore condensato, po- tente, sdegnoso di espansione, li sof- focava. • indimenticabili notti create per r amore ! eternamente bello, golfo di Napoli, dall'amore e per V amore creato! Nelle notti di primavera, quan- do il fermento della terra conturba i sensi e tenta V anima, quando nelTaria vi è troppo profumo di fiori, si può discendere al mare, entrare nella barca, fuggire la costiera, e sdraiati sui cuscini, contemplare l'azzurro cupo del cielo, T ondeggiamento voluttuoso del flutto, il palpito vivo delle stelle, che pare si vogliano staccare, per pre- cipitare neir immenso aere. Nelle tor- bide notti estive che seguono le gio^- BAUCinniA FANTASMA. 103 nate violente e tormentose, quando la terra si riposa, slìaccolata, da una passione di quattordici ore col sole, felice colui che può farsi cullare in una barca, come in un amaca, mentre il forte profumo marino gli fa sognare il tropico, la sua splendida e mo- struosa vegetazione, e le svelte fan- ciulle brune che discendono sotto gli archi dei tamarindi. Nello meste e bianche notti autun- nali, quando la luna malaticcia si unisce alla candida malinconia del cielo, al languido pallore delle stelle, alla nebulosità ideale delle colline, quando tutto il mondo diventa fioc- coso di spuma, vi è chi presceglie il mare per confidente e va a nar- rargli il disfacimento della sua vita, che inclina a perdersi nel nulla, mentre la morbida curva di Posilipo pare 104 HAkCllKTTA FANTASMA. che si abbassi anche essa, desiderosa di scomparire nel mare. Nelle notti tempestose d' inverno, quando il tem- porale della città ha tutta la gret- tezza e la miseria delle slradicciuole strette e delle grondaie piagnucolose, quando V anima sente il bisogno im- perioso di una mano che l'afferri, che delizioso ed infinito terrore, che im- pressione incancellabile trovarsi in alto mare, in un ambiente nero, dove il pericolo è tanto più grande, in quanto è indistinto. Ma più felice di tutti, colui che godette queste notti, carezzando i capelli morbidi di una donna adorata, che stringendola al cuore, potette sognare di rapirla nel paese sconosciuto. desiderato dagli a- manti, che potette sperare di morire con lei, sotto il cielo che s'incurva, nel mare che li vuole. Più di tutti BAKCHKiTA FANTASMA. 105 colpevolmente felici e colpevolmente invidiati, Aldo e Tecla. * » — Aldo, il mare è troppo nero. — Io V amo, Tecla. — Io l' amo, Aldo. Sostienimi col tuo saldo braccio, amore. Perchè quel barcaiuolo tace ? — 11 suo lavoro ò duro, forse. Gli daremo del denaro — .... mi amerai sempre, sempre Tecla? — Sempre. Aldo , quella fiaccola gitta una luce sanguigna sui nostri volti e sul mare. Pare che illumini due cadaveri ed una tomba, amore. — Che temi tu dalla morte ? — Dividermi da te. — Giammai. Dio dove castigarci cffuaimcnte. 10() HARCIIKTTA FANTASMA. Un silenzio si prolungò. Si guarda- vano, mentre alla loro passione si u- niva la nota dolce di una tenerezza grave come un presentimento. La barca volava sull'acqua; il barcaiuolo vogava con grande forza, senza vol- gere il capo a guardare gli amanti. — Non ti sembra, Aldo, che siamo lontani assai dalla sponda ? — Tanto meglio, dolcezza mia. — Perchè quel barcaiuolo non parla ? — C'invidia forse, Tecla. È giovane, amerà senza speranza. — Interrogalo , Aldo. Domandagli perchè nasconde il suo volto. D'un tratto il barcaiuolo si volse. Era Bruno. Era la figura dell'odio. Aldo e Tecla si strinsero, si bacia- rono. E la barca si capovolse sul bacio degli amanti, sul grido di furore di BARCHETTA FANTASMA. 107 Bruno. Tre volte vennero a galla, gli amanti, abbracciati, stretti con una celestiale beatitudine nel viso , tre volte venne a galla una faccia con- tratta dalla collera. • « « .... Odimi, amore. In una certa ora della notte, sulla bella riva di Posilipo, su quella gaja di Mergellina, su quella cupa del Chiatamone, su quefla fra- gorosa di S. Lucia, su quella sporca del Molo, su quella tempestosa del Carmine, la barchetta-fantasma appare, corre veloce sull'acqua, gli amanti si baciano lentamente, la figura dello sposo si erge sdegnata, la barchetta si capovolge. Ancora tre volte si ri- vede queir eterno bacio, queir eterno odio. Ogni notte la barchetta-fantasma 108 BARCHETTA FANTASMA. appare. Ma non lutti la vedono. Dio permette che solamente chi ama bene, chi ama intensamente possa vederla. Apparisce solamente per gli innamo- rati, i quali impallidiscono a quell'a- spetto. É la pruova dell' amore, una pruova infallibile e singolare. L'hai tu vista .^ L'hai tu vista, la barchetta-fantasma? O sciagurata me, se fui sola a vederla ! IL SEGRKTO UKL .MAGO. JNeiranno 1220 della salutifera In- carnazione, regnando in Palermo ed in Napoli il grande e buon re Fede- rico Secondo di Svevia, acxìadde in Napoli un caso bellissimo che non vi sa- rà discaro ascoltare, trattandosi di pia- cevole argomento. Simil novella non troverete nò in istorici, né in eleganti narratori; io slessa la raccolsi rozza ed informe dalla tradizione popolare e voglio, narrandola a voi, consacrarla in questa scrittura, affinchè ne possano avere disadorna ma chiara notizia i 112 IL fcsKGUKTO DEL MAGO. più tardi nepoti, per cui lavora e si affatica ogni scrittore disdegnoso del facile plauso contemporaneo. Ma senza più intrattenervi in preliminari, avendo spiegata chiaramente la mia inten- zione, ecco il caso. Nello stretto vico dei Cortellari, che come ognuno sa, apparteneva al Seggio di Portanova, vi era una casuccia stretta ed alta, dalle piccole finestre, aventi i vetri sporchi ed impiombati, La porta d'entrata era bassa e oscura; sporca e ripida la scala; di rado si aprivano le finestruole. La gente vi passava dinanzi frettolosa, dando uno sguardo fra il collerico ed il pauroso, e borbottando fra i denti non so se una preghiera o una maledizione. In verità, nella casuccia abitava gente mal faniata; al primo piano v'era un ma- ledetto giudeo, degno discendente di IL SKARETO DEL MAGO. 113 coloro che crocifissero nostro Signore Gesù Cristo , un giudeo ladro che dava il denaro ad usura e tosava le monete d' oro ; al secondo una bella giovane di quelle che sono la tenta- zione e la dannazione deir uomo ; al terzo un marito ed una moglie, brutti ceffi che di giorno eran fuori di casa a qualche ignoto ed equivoco mestiere e quando rincasavano, a notte piena, si battevano come la lana. Quello che l'ormava lo sgomento dei vhandanti non era specialmente Pebreo cane, lo sguardo provocante della donna, o gli strilli della moglie bastonata dal marito, ma era tutto questo insieme o principalmente il pensiero che al- l' ultimo piano della casa indiavolata abitava Cicho il mago. Le anime ti- morate di Dio si facevano il segno della croce che è anche quello della 114 IL SEGRKTO DEL MAGO. nostra salvazione e passavano oltre; gli spiriti mondani facevano le corna con la mano, si tastavano il ginocchio^ pronunciavano qualche scongiuro e simili cose operavano che volgar- mente si credono atte a disperdere il malaugurio. Sebbene Cicho uscisse molto raramente e raramente spalan- casse le imposte della sua finestruola, il popolo sapendo della sua magia, del suo potere sovrumano, ne avea ti- more grandissimo. Senza dubbio i misteriosi andamenti di Cicho davan fede di verità a quan- to di lui si dicea. Chi fosse non si sapea, né donde venisse; sempre chiuso in casa; in apparenza privo d'amici e di parenti; torvo neir incedere, lento il passo, V occhio fisso a terra , mor- morando parole greche , latine , o di iiualche lingua demoniaca ; parco nel IL Sr.ORETO DEL MA.GO. 115 conversare, ma non aspro nei modi , anzi sorridente nella fluente barba bianca; scuri ma netti i vestimenti. Invano, quando venne ad abitare nel vico Cortellari, le femminette d' intor- no s' informarono di lui , chiesero , osarono interrogarlo, fermarono il suo servo e adoperarono i mille mezzi che mai sempre consiglia alla donna la sua gran maestra e signora , la curio- sita. Nulla potettero sapere e Cicho, la sua origine, la sua famigliai, la sua vita rimasero nelle tenebre dello sco- nosciuto. Ma in seguito, spiando , os- servando, escogitando si seppe che Cicho intendeva a opere magiche : durante la notte , mai si spegneva la lampada della stanzuccia dove egli studiava su grossi volumi di mano- scritto a fermaglio, tolti da una pol- verosa scansia, mai cessava d' uscire^ 11() IL SEGRETO DEL MAKO. dalla cappa nera del suo focolare, un filo di fumo e la sua stanza era piena di storte, di lambicchi, di fornelli, di singolari coltelli in tutte le forme e di altri istrumenti in ferro destinati ad usi paurosi. Si dicea che spesso Cicho passava ore intiere curvato so- pra un pentolino che bolliva, bolliva e dove sicuramente danzavano le ma- ledette erbe infernali che cagionano malsania, follia e morte, sebbene il servo non comperasse in piazza che le erbe di cucina, come maggiorana, pomidoro, basilico, prezzemolo, cipolle, agli ed altro. Ma si sa che gli stre- goni vanno sui prati, nella notte del sabato, incantano la luna , chiamano il diavolo e colgono le erbaccie male- fiche. Si diceva altresì che Cicho ve- nisse fuori sul suo piccolo terrazzino, scuotendo dalle mani e dall'abito una IL SK(.RKTO DKL MAGO. 117 polvere bianca che certo doveva av- velenare r aria ; che spesso andasse a lavarsi le mani macchiate di rosso in un tinello di cui l'acqua si corrom- peva. Quelle mani macchiate di rosso davano autorità a orribili sospetti ; tanto più che si soggiungeva esservi spesso, nel laboratorio di Cicho , sul pavimento, larghe macchie di un rosso- bruno, simili a pozze di sangue e che quello sciagurato stregone di Cicho si occupasse, nella notte, a tagliare coi suoi sottili coltelli, sopra una grande tavola di marmo bianco, non so che di bianco e di delicato. Membra di bambini, o gambe di rana, o pelli di serpentelli — ripeteva la gente. E quando camminava nella via, le co- mari ammiccavano e si davano delle gomitate nei fianchi, dicendo : — Cicho il mago, Cicho il mago ! 118 IL SEGRETO DKL MAGO. — Cerca il modo di ridiventare gio- vane, il vecchione ! — Vuole trovar V oro, forse. — quella pietra per cui s* ha virtù, saggezza e lunga vita. — Che ! ! Chiama il diavolo per di- ventare Gran Turco. Cicho ascoltava e tirava via sorri- dendo. In fondo le comari, avendone paura, non osavano maledirlo che sot- tovoce; e ammonivano i bimbi ad u- sargli rispetto. Lo stregone, malgrado le voci temerarie , aveva aspetto di galantuomo e quella tale aria di sod- disfatto raccoglimento di chi medita una bella e feconda idea. P^rea di- cesse : verrà , verrà il giorno mio , o gente ingrata. IL SKGurrro dkl mago. 119 A chiarirvi un poco il mistero ed a denudare la sua vita di quella parte sovrumana che Dio non permette più sulla terra , poiché Dio fa miracoli solamente per V anima e non più per il corpo, vi dirò quanto segue. Cicho era stato a suo tempo ricco e gagliardo e bel giovanotto ; aveva saputo goder bene della salute , della gioventù e della ricchezza ; amante , era stato amato ; aveva avuto palazzi, cavalli di nobil sangue, pietre prezit)se , ve- stimenta intessute d'oro; aveva go- duto feste, conviti, balli, torneamenti , giostre ; aveva assaporato col più vivo piacere baci di donne, colpi di spada di cavalieri e vini poderosi. Quando la sua ricchezza cominciò a dileguare, come sempre accade, si allontanarono donne ed amici ; ma Cicho che aveva fatta sugli scrittori antichi buona e 120 IL SEGRETO DEL MAGO. larga provvista di filosofia, non se ne accorò. Sibbene rimasto solo, con nin- na opera da compiere , lo prese va- ghezza di rendersi utile agli uomini. E dopo aver molto escogitato tutti i mezzi, ricordando i suoi godimenti ed i suoi piaceri, entrò nella persuasione dover lui ritrovare qualche cosa che concorresse specialmente alla felicità del suo simile, felicita instabile e pas- saggiera, a cui egli volea dare un qualche solido fondamento. Rafiermato in questa intenzione comperò perga- mene e volumi , studiò lungamente , tentando e ritentando ogni giorno pruove novelle, sbagliando, ricomin- ciando da capo , consumando le sue notti, il suo denaro ed il carbone dei suoi fornelli. Per molto tempo la mala fortuna lo perseguitò e le sue espe- rienze riuscirono sempre fallaci , ma IL SKOUCTO DEL MAGO. 121 non per questo venne meno la sua costanza. Ei lavorava per la felicità dell' uomo e cotale altissimo scopo gli era innanzi agli occhi come visione animatrice ; alla fine, dopo molti anni di travaglio, ei potè dire di aver rag- giunto la sua meta, gridando anche lui la parola del greco Archimede, di fronte a tanta scoperta. Poi, come usano gli inventori, s'occupò a vez- zeggiare la sua scoperta, a carezzarla, a darle forme svariate e seducenti, a perfezionarla, in modo da poter dire agli uomini : Eccola qui ; io ve la dono bella e completa. Ora accadde che sul terrazzino di Cicho il mago sporgesse anche una porticina di una stanzuccia dove a- 122 IL SEGRETO DEL MAGO. bitava con suo marito Jovannella di Ganzio. Era costei maliziosa, astuta e linguacciuta quanto mai femmina possa essere; e sua dilettosa occupa- zione era conoscere i fatti del vici- nato per trarne personale vantaggio per malignarvi su. Non è a dire se la malvagia Jovannella spiasse conti- nuamente Cicho il mago; che anzi si arrovellava di giorno e non aveva tregua nelle lenzuola alla notte, per la inappagata curiosità; e più non riusciva a saper nulla, più, per di- spetto, lacerava la riputazione delle vicine e tormentava il marito Giacomo^ guattero di cucina al real palazzo. Ma non senza saviezza corrono det- tami popolari esprimenti che la donna ottiene sempre quello che vuole for- temente — e malgrado le precauzioni di segretezza adoperate da Cicho il IL SEGRETO DEL MAnO. 123 mago, malgrado le porte chiuse, le finestre sbarrate, la Jovannella seppe il segreto dello stregone. Fosse stato per baco di serratura, per fessura di porta, per foro nel muro, o per altro, io non so. Ma è certo che un giorno, la trionfante Jovannella disse al guat- tero marito: — Giacomo, se hai ardirò di uomo, la fortuna nostra è fatta. — Sei tu diventata strega? Io mei sapeva. — Malann'aggia la tua bocca scon- sacrata! Ascolta. Vuoi tu dire al cuoco di palazzo che io conosco una vivanda di cosi nuova e tanto squisita fattura da meritare Passaggio del re ? — Femmina, tu sei pazza. — Dio mi sradichi questa lingua che ho tanto cara, sMo mento! E con molte sue persuasioni lo in- 124 IL SEGRETO DEL MAGO. dusse a parlarne col cuoco, che a sua volta ne discusse col maggiordomo, il quale ne tenne parola con un conte, ohe osò dirne al re. Piacque al re la novella e dette ordine che la moglie del guattero si recasse nelle reali cu- cine e componesse la prelibata vi- vanda: infatti la Jovannella accorse prontamente e in tre ore ebbe tutto fatto. Ecco come: prese prima fiordi farina, lo impastò con poca acqua, sale e uova, maneggiando la pasta lungamente per raffinarla e per ri- durla sottile sottile come una tela; poi la tagliò con un suo coltelluccio in piccole strisce, queste arrotolò a forma di piccoli cannelli e fattane una grande quantità, essendo morbidi ed umidicci, li mise a rasciugare al sole. Poi mise in tegame strutto di porco, cipolla tagliuzzata finissima e IL SEGRETO DEL MAGO. 125 sale; quando la cipolla fu soffritta vi mise un grosso pezzo di carne; quando questa si fu crogiolata bene ed ebbe acquistato un colore bruno-dorato, ella vi versò dentro il succo denso e rosso dei ponriidoro che aveva spremuti in uno staccio; copri il tegame e lasciò cuocere, a fuoco lento, carne e. salsa. Quando Torà del pranzo fu venuta, ella tenne preparata una caldaia di acqua bollente dove rovesciò i can- nelli di pasta: intanto che cuòcevano, ella grattugiò una grande quantità di quel dolce formaggio che ha nome da Parma e si fabbrica in Lodi. Cotta a punto la pasta, la separò dair acqua ed in un bacile di maiolica la condì mano mano con una cucchiaiata di formaggio ed un cucchiaio di salsa. Cosi fu la vivanda famosa che andò innanzi al grande Federigo , il quale 126 IL sEaiiEro del mago. ne rimase meravigliato e compiaciuto; e chiamata a sé la Jovannella di Caa- zio, le chiese come aveva potuto im- maginare un connubio cosi armonioso e stupendo. La rea femmina disse che ne aveva avuto rivelazione in sogno, da un angelo : il gran re volle che il suo cucco apprendesse la ricetta e donò alla Jovannella cento monete d- oro dicendo che era molto da ricompen- sarsi colei che per una si grande parte aveva concórso alla felicità deir uomo. Ma non lu questa solamente la fortuna di Jovannella, poiché ogni conte ed ogni dignitario volle avere la ricetta e mandò il proprio cuoco ad imparare da lei, dandole grosso premio ; e dopo i dignitari vennero i ricchi borghesi e poi i mercatanti e poi i lavoratori di giornata e poi i poveri , dando ognuno alla donna quel che poteva. IL SEGRETO DEL MAGO. 127 Nel corso di sei mesi tutta Napoli si cibava dei deliziosi maccheroni — da macaruSf cibo divino — e la Jovan- nelia era ricca. Intanto Cicho il mago , solo solo nella sua cameruccia, modificava e variava la sua scoperta. Pregustava il momento in cui, fatto noto agli uo- mini il segreto, gliene sarebbe venuta gratitudine, ammirazione e fortuna. Inline, non vale più la scoperta di una nuova pietanza che quella di un teo- rema filosofico ? che quella di una co- meta? che quella di un nuovo insetto? Bene dunque : e lodato senza fine sii r uomo che la fa. Ma un giorno che il termine era vicino , Cicho il mago usci a respirare per la via del Molo j 128 IL SECfRETO DKL MAGO. arrivato presso la porta del Caputo , un noto odore gli feri le nari. Egli tremò e volle rincorarsi, pensando che era inganno. Ma roso dair ansietà, entrò nella casa donde V odore era venuto e domandò ad una donna che badava ad un tegame : — Che cucini tu ? — Maccheroni , vecchio. — Chi te lo insegnò , donna ? — Jovannella di Canzio. — Ed a lei ? — Un angelo, dicono. Ella ne cu- cinò al re ; ne vollero i principi , i conti , tutta Napoli. In qualunque casa entrerai, o vecchio pallido e morente, troverai che vi si cucinano macche- roni. Hai fame? Vuoi tu cibartene? — No. Addio. Entrato in varie case, trascinandosi a stento, Ciche il mago ebbe certezza IL SEGRETO DEL MAGO. 121^ dello accaduto e del tradimento di Jovannella; il custode del palazzo reale gli ripetè la storiella. Allora, disperato d'ogni cosa, tornatosene alla sua ca- setta, rovesciò lambicchi , storte , te- gami, fornelli, forme e coltelli ; rup- pe, fracassò tutto; abbruciò i libri di chimica. E partissene solo ed igno- rato , senza che mai più fosse veduto ritornare. Come è naturale, la gente disse che il diavolo aveva portato via il mago. Ma venuta a morte la Jovannella, dopo una vita felice, ricca ed onorata, co- me la godono per lo più i malvagi , malgrado le massime morali in con- trario , nella disperazione della sua agonia, confessò il suo peccato e mori urlando come una dannata. Neppur tarda giustizia fu resa a Cicho il mago: solamente la leggenda soggiunge che . — Leggènde Kapoìeteme. 130 IL SEGRETO DEL MAGO. nella casa dei Cortellari, dentro la stanzaccia del mago, alla notte del sabato, Cicho il mago ritorna a ta- gliare i suoi maccheroni, Jovanella di Canzio gira la mestola nella salsa del pomodoro ed il diavolo con una mano gratta il formaggio e con Taltra soffia sotto la caldaia. Ma diabolica o an- gelica che sia la scoperta di Cicho , essa ha formato la felicità dei napo- letani e nulla indica che non continui a farla nei secoli dei secoli. «;^ DONNALBINA, DONNA ROMITA, DONNA REGINA. Lia leggenda di Donnalbìna» Donna Komita, Donna Regina corre ancora per la lurida via di Mezzocannone, per le primitive rampe del Salvatore, per quella pacifica parte di Napoli vecchia che costeggia la Sapienza. Corre la leggenda per quelle vie, cade nel rigagnolo, si rialza, si eleva sino al cielo, discende, si attarda nelle umide ed oscurò navate delle chiese, mormora nei mesti giardini dei conventi, si disperde, si ritrova, si rinnovella — ed è sempre giovane. 134 DONN ALBINA, DONNA ROMITA sempi'e fresca. Se voi volete, o miei fedeli ed amati lettori, io ve la narro. Se volete per un poco dimenticare le nostre folli passioni, i nostri odii taciturni, i nostri volti pallidi, le nostre anime sconvolte, io vi parlerò di altre passioni diversamente folli, di altri odii, di altri pallori, di altre anime. Se volete io vi narrerò la leggenda delle tre SQr;eIle: Donnalbina, Donna Romita, Donna Re^na. Erano le tre figlie del barone Toraldo, nobile del Sedile di Nilo. La madre, donna Gaetana Scauro, di nobilissimo parentado, era morta molto giovane: il barone si crucciava che il suo nome dovesse estinguersi con lui, pure non riprese moglie. Ottenne come special favore, dal re Roberto d'Angiò, che la sua figliuola maggiore Donna Regina, potesse, passando a DONNA REGINA. 135 nozze , conservare il suo nome di famiglia e trasmetterlo ai suoi figliuoli. E nel 1320 si mori, racconsolato nella fede del Cristo Signore. Donna Regina aveva allora diciannove anni, Donna Albina diciassette e Donna Romita quindici. La maggiore, dal superbo nome, era anche una superba bellezza: bruni e lunghi i capelli nella reticella di fil d'argento, stretta e chiusa la fronte, gravemente pensosi i grandi occhi neri, severo il profilo, smorto il volto, roseo-vivo il labbro, ma parco di sorrisi, parchissimo di detti ; tutta la persona scultoria, altera, quasi rigida neir incesso, composta nel riposo. E lo spirito di Regina, per quanto ne potea indurre T indiscreto indagatore, rassomigliava al corpo. Era in quella anima una austerità precoce , un 133 DONNALBIXA, DONNA ROMITA sentimento assoluto del dovere, una alta idea dal suo compito, una ve- nerazione cieca del nome, delle tra- dizioni, dei diritti, dei privilegi. Era lei il capo della famiglia, l'erede, il conservatore del nobil sangue, dell'o- nore, della gloria; era nel suo fragile cuore di donna che dovevano trovare aiuto e sostegno queste cose — ed ella, nel silenzio, nella solitudine, si adoperava ad invigorire il suo cuore, a farvi nascere la costanza e la fer- mezza, a cancellarvi ogni traccia di debolezza muliebre. A volte nel suo spirito, sempre freddo, sempre teso, passava un soffio caldo e molle — e le sorgevano in cuore vaghi desiderii di profumi , di colori abbaglianti , di sorrisi ; ma ella cercava vincersi , si inginocchiava a pregare, leggeva nel vecchio libro dove erano scritte le DONNA REGINA. 137 storie di famiglia e ridiventava V in- flessibile giovinetta. Donna Regina , baronessa di Toraldo. Donnalbina, la seconda sorella, veniva chiamata cosi dalla bianchezza eccezionale del volto. Era una fan- ciulla amabile, sorridente nel biondo- cinereo della chioma, nel fulgore dello sguardo intensamente azzurro, nei morbidi lineamenti , nella svelta e gentile persona. I tratti duri , fieri , di Donna Regina diventavano femmi- nilmente graziosi in Donnalbina. E veramente ella era la dolcezza di casa Toraldo. Era lei che dirigeva i lunghi lavori delle sue donne sul broccato d' oro, alle trine di lucido filo d'argento, agli arazzi istoriati, andando da un telaio all'altro, cur- vandosi sul ricamo, consigliando, la- vorando ; era lei che, in ogni sabato. 138 DONXALBINA, DONNA ROMITA attendeva alla .distribuzione delle eie* mosine ai poveri, curando che niuno fosse trattato con durezza, che niuno fosse dimenticato, ritta in piedi sul primo scalino della porta , vivente immagine della misericordia terrestre. Era lei che portava alla sorella Re- gina le suppliche dei servi infermi , dei coloni poveri, di chiunque chie- desse una grazia, un soccorso. Nella sua affettuosa e gaia natura, si doleva del silenzio di quella casa, delP austera gravità che vi regnava, dei corridoi gelati, delle sale marmoree che niun raggio di sole valeva a riscaldare, si doleva del freddo cuore di Regina che niun affetto faceva sussultare — se ne doleva per Donna Romita. Perchè Donna Romita era una singolare giovinetta, mezzo donna, mezzo bambina. Cosi il suo aspetto: DONNA RKGINA. 13i> i capelli biondo cupo, corti ed arric- ciati, il viso bruno di quel bruno caldo e vivo che pare ancora il riflesso del sole, gli occhi di un bel verde smeraldo, glauco e cangiante come quello del mare, le labbra sottili e rosse, la personcina esile e povera di forma, bruschi i moti, irrequieta sempre. Ora appariva indifferente, glaciale, gli occhi smorti, le nari terree, quasi la vita fosse in lei so- spesa; ora si agitava, una lìàmma lo coloriva il volto, le labbra fremevano di baci, di parole, di sorrisi, ran- gole delle palpebre nascondeva una scintilla, scivolata dalla pupilla vivaj ora diventava irritata, superba, il viso chiuso, sbiancato da una collera interna. Nei giorni d' inverno, quando la pioggia sferza i vetri , il vento sibila per le fessure delle porte, urta 140 DONN ALBINA, DONNA ROMITA nel camino del largo focolare. Donna Romita si rannicchiava in un seggio- lone come un uccello pauroso ed am- malato; nelle caldissime ore di estate, non lasciava le ombre del giardino, errando pei viali. A volte rimaneva lunghe ore pensosa. Pensava forse a* sua madre, cui le avevano detto ras- somigliasse. Pure le tre sorelle menavano pla- cida vita. Erano regolate le ore del- l' abbigliamento, della preghiera, del lavoro, deir asciolvere e della cena ; erano stabilite equamente le occupa- 2Ìoni di ogni settimana, di ogni mese. Dapertutto Donna Regina andava in- nanzi e le sorelle la seguivano ; ella aveva il seggiolone con la corona baronale, ella aveva le chiavi dei DONNA REGINA. 141 forzieri dove erano rinchiuse le in- segne del suo grado ed ' i gioielli di famiglia; a mensa, ella presiedeva, le due sorelle, una a dritta, V altra a sinistra su seggi più umili; all'ora- torio ella intuonava le laudi. La mat- tina e la sera le due sorelle minori salutavano la maggiore, inchinandosi e baciandole la mano: ella le baciava in fronte. Di rado le chiamava a consiglio, essendo in lei il senno su- periore air età ed al sesso f ma se accadeva, le due attendevano pazienti di essere interrogate. Era in tutte tre profondo ed innato il sentimento dello scambievole rispetto: in Donnal- bina ed in Donna Romita un ossequio affettuoso per Donna Regina. Le sue parole erano una legge indiscutibile, cui non si sarebbero giammai ribel- late. In fondo l'amavano, ma senza 142 DONNALBINA, DONNA ROMITA espansioni. Ed essa era troppo rigida per mostrar loro il suo affetto, se le amava. Un giorno re Roberto si degnò scrivere di suo pugno a Donna Regina Toraldo che le aveva destinato in isposo Don Filippo Capece, cavaliere della corte napoletana. Imbruniva. Nel vano di un balcone sedeva Donna Regina, col libro delle Ore fra le mani. .Ma non leggeva. — Mi è lecito rimanere accanto a voi, sorella mia? — chiese timida- mente Donnalbina. — Rimanete, sorella — disse bre- vemente Regina. Regina era più smorta dell'usato, un pò* abbassata la testa, errante lo DONNA REGINA. 143 Sguardo. E Donnalbina cercava indo- vinare il pensiero segreto di quella fronte severa. — Mi ricercavate di qualche cosa^ Donnalbina? — chiese infine Regina, scuotendosi. — Voleva dirvi che la nostra so- rella Donna Romita mi pare ammalata. — Non me ne addiedi. Mandaste per la medichessa Giovanna? — No, sorella, non mandai. — E perchè? — Ahimè! sorella, dubito che i farmachi possano guarire Donna Ro- mita. — E qual malore grave e strano è il suo, che non trovi rimedio ? — Donna Romita soffre, sorella mia. Nella notte è angosciosa la sua veglia ed agitati i suoi sonni ; nel giorno fugge la nostra compagnia, 144 DONNALBINA, DONNA ROMITA piange in qualche angolo oscuro; passa ore ed ore nel!' oratorio , ingi- nocchiata, col capo su le mani. Donna Romita si strugge segretamente. — E sapete voi la causa di tanto struggimento, Donnalbina? — chiese con voce aspra Donna Regina. — Io credo saperla — rispose, facendosi coraggio, la sorella minore. — Ditela dunque. — . Me la chiedete voi ? — Ve la chieggo. Tardaste troppo. — Donna Romita si strugge d'a- more, o mia sorella. — D'amore, diceste? gridò Regina, balzando sul seggiolone. — D'amore. — E che?! debbo io udire da voi queste parole? Chi vi parlò prima d'amore? Chi vi ha insegnato la tri- sta scienza? Di chi io debbo più cruc- DONNA REGINA. 145 darmi, di Donna Romita che me lo cela, di voi, Donnalbina, che Io in- dovinate e me lo narrate ? Come furoiì turbati il cuore dell' una , e la mente dell'altra? Sono io stata cosi poco provvida, cosi incapace da lasciare indifesa la vostra giovinezza? — L'amore è nella nostra vita -^ risposecon dolce fermezza Donnalbina. Regina si tacque un momento. Aveva corrugate le sopracciglia, quasi a restringere ed a condensare il suo pensiero. — Il nome dell'uomo? — chiese poi duramente. Donnalbina tremò e non rispose. — Il nome delP uomo ? ^<- insistette P altra. — É un giovane cavaliere , un cavaliere di nobil aangue, bello, do*- vizioso. 1^ ^ Jjtgg€mi€ VapoUifomt. 146 DONNALBINA, DONNA ROMITA Il SUO nome? — Donna Romita è stata affascinata dalla eloquente parola, dallo sguardo di fuoco. Amò, certo, senza saperlo.... — Il suo nome, vi dico, Debbo io pregarvi? — Oh ! no, sorella. Ma voi le per- donerete, voi le perdonerete, non è vero ? — e cercava prenderle le mani. — Che cosa debbo perdonarle ? Ditemi il nome del cavaliere. — Pietà per lei ! Ella ama Don Filippo Capece. — No!.! Lo ama, lo ama, sorella. Chi non P amerebbe ? non è egli valoroso, galante con. le dame, seducente nel- r aspetto? Quando egli mormpra una .parola di amore, il cuore della fan- -ciuUa deve, struggersi in una dolcis- sima felicità; quando il suo. Jabbro DONNA REGINA. 147 sflora la fronte della fanciulla, può ella invidiare le gioie degli angeli ? Essere sua! Sogno benedetto, aura invocata, luce abbagliante ! Pietà per nostra sorella! Essa lo ama — e cadde ginocchioni, balbettando ancora vaghe parole di preghiera. — Ma per chi mi chiedi pietà ? — gridò Donna Regina, rialzando bru- scamente la sorella, in un impeto di collera — per chi me la chiedi? — Per Donna Romita •. — ri- spose r altra smarrita. — Chiedila anche per te. Tu, come lei, ami Filippo Gapece. — Io noi dissi ! — esclamò Albina, folle di terrore. — Tu r hai detto. L' ami. Ed io non posso, non posso perdonare. Io amo Filippo Capece — disse con voce disperata. Regina. 148 DONN ALBINA, DONNA ROMITA Le ombre della notte involgevano la casa Toi'aldo; una notte senza speranza di alba. Profondo è il silenzio nell'oratorio. La làmpada di argento, sospesa da- vanti ad una Madonna bruna, brucia il èlio olio profumato , diradando il buio con una luce piccola ed incerta. Hrilla una sola scintilla, 'nella veste d' argento della Vergine. Se si tende bene T orecchiò, "si ode un respiro lieve, lieve. Non^ul reliuto rosso dèi cascino, 'non stilla Ixahlustfa di legno scolpito deir inginocchiatoio , 'mia ^ul marmo gelido del p^vixttento,^ mezzo distè^ una fòrìQla tiinana ; P àbito bianco e lungo in cui è «tVolta, ha qualche cosa di '1\ìnebre. fìbtiDa Ro- DONNA REGINA. 149 znita è là da più ore, dimentica di tutto, neir abbandono di tutto il suo essere, nel profondo assorbimento del- l' idea fissa. Ella non sente il freddo deir ambiente , non vede T oscurità , non sa nulla del tempo, non sente lo spasimo delle sue ginocchia, non sente lo spasimo di tutta la sua vita : ella non sente che il suo pensiero tormen- toso, onnipresente, onnipotente. — Madonna santa , toglimi questo amore! Madonna santa, strappami il cuore ! Madonna santa, fammi morire, fammi morire, fammi morire ! Toglimi questo amore ! E le invocazioni si moltiplicano; ella tende le braccia alla immagine sacra e torna a chiedere la morte, la morte. La fronte ardente si curva sino al suolo, le labbra baciano il marmo, tutto il corpo si torce nella dispe- razione. 150 DONN ALBINA, DONNA ROMITA Ad un tratto un singhiozzo inter- rompe il silenzio. Chi piange presso lei ? É forse V eco del suo dolore ? É forse la sua ombra , quest' altra fan- ciulla vestita di bianco, che piange e prega in un angolo ? Si , è T eco del suo dolore, è la sua ombra che si de- sola : è Albina. Donna Romita fugge, fugge invasa dal terrore e dalla ver- gogna, lasciando nelP oratorio un amore ed una sciagura simile alla stia. In queir ora medesima, nella vasta stanza da letto , sola , seduta presso il tavolino di quercia, veglia Donna Re- gina. Sta immobile, non prega, non piange, non trasalisce. Tutto il volto pare scolpito nel granito: solo ardono gli occhi , di un fuoco consumatore. Passano le ore sul suo capo altero, passano le ore sul suo cuore straziato, ma pel loro passaggio non si cangia il suo strazio. DONNA REGINA. 151 Allegre le vie della vecchia Napoli nella primavera novella dell'anno, per la gioia degli uomini; lieto lo scam- panio delle chiese. É la Pasqua di risurrezione. La pace dal cielo scende sulla terra, nei fiori e nella luce pri- maverile. Il mondo rivive, rinasce la sua gioventù, un istante sopita. Nel- l'aria si respira amore. Le due minori sorelle hanno chiesto a Donna Regina un colloquio parti- colare ed ella Io ha accordato; era tempo che le tre sorelle non si ve- devano, runa fuggendo l'altra, met- tendo la mestizia nella loro casa , lo scompiglio tra i famigliari. Donna Regina è nella grande sala baronale, dove in antico si teneva corte di 152 DONNALBINAy DONNA ROMITA giustizia ; è splendidamente vestita; ha indosso i gioielli magnifici di casa Toraldo; ha daccanto, sovra un cu- scino, la corona ingemmata di zaffiri, di rubini e di smeraldi, lo scettro baronale ; sul volto un'austerità calma. Entrano Donnalbina e Donna Romita. Sono vestite di bruno, senza orna- menti. La gaia giovinezza di Donnal- bina è svanita, è svanito il suo soave sorriso, è perduta la sua bionda bel'^ lezza. Donna Romita china il capo» abbattuta; ancora non ha avuto il tempo di esser giovane e già si sente irresistibilmente attirata dalla morte. Esse 8' inchinano a Donna Regina ed ella rende loro il saluto. — Parlate anche per me» Donnal- bina -^ mormora a bassa voce Donna Romita. — Veniamo a dirvi, sorella nostra DONNA REGINA. 153 — prènde a dire Donnalbioa — che dobbiamo dividerci. Regina non trasalisce, non batte palpebra, aspetta. — É mia intenzione, è intenzione di Donna Romita, dare una metà della nostra dote ai poveri e T altra parte dedicarla alla fondazione di un mo- nastero, dove prenderemo il velo. — Ogni monaca di casa Toraldo ha diritto di diventare badessa, nel mo- nastero che ha fondato — rispose Regina con tono severo. — Sia pure. Attendiamo le vostre risoluzioni, sorella. Ella non rispose. Pensava, raccolta in sé stessa. — Siateci generosa del vostro con- senso Donna Regina. Troppo vi offen- demmo, è vero.... — Desistete — fece quella con un moto di fastidio. 154 DONNALBINA, DONNA ROMITA — Non desisteremo, no — riprese Donnalbina , affannandosi — Dio e voi offendemmo. Grave il peccato, grave r espiazione. Ecco, ancora non giun- sero per noi i venti anni e noi abban- doniamo questo mondo cosi bello, cosi ridente; noi lasciamo la nostra casa, le nostre dolci amiche, le care consue- tudini; lasciamo voi, sorella amata per quanto più offesa. Il chiostro ne aspetta. A voi r onore di conservare il nostro nome ; a voi le liete nozze , V amore dello sposo, il bacio dei figliuoli.... E la voce di Donnalbina si afflevoli, come quella di una morente. — Voi v' ingannate , o sorella — rispose Donna Regina, lentamente. — É da tempo che ho deciso prendere il velo, in un convento da me fondato. Un silenzio tristissimo segue le in- fauste parole. DONNA REGINA. 155 • — Io non posso sposare Filippo Capece — riprese ella, mentre una vampa di sdegno le correva al viso. — Egli mi odia. — Ahimè ! io gli sono indifferente — mormorò Donnalbina. — Io anelo al chiostro. Egli mi ama — pronunziò con voce rotta Donna Romita. E le due sorelle baciarono Donna Regina sulla guancia e ne furono baciate. — Addio, sorella mia. — Addio, sorella mia. — Addio, sorelle. Donna Regina si alzò, prese lo scettro d'ebano, borchiato d'oro, e lo spezzò in due pezzi. E rivolgendosi al ritratto delP ultimo barone Toraldo,. gli disse, inchinandolo: — Salute, padre mio. La vostra nobile casa è morta! 156 DONNALBINA, DONNA ROMITA # Non hanno parole le brune volte dei nìonasteri, la pallida luce dei cerei trasparenti, il profunìo eccessivo deir incenso, la profonda voce del- l' organo, le bigie pietre sepolcrali ; non han parola le fredde celle , il nudo e duro letto dove è scarso il «onno, il cilicio sanguinoso, le pagine distrutte dalle lagrime, i crocifissi distrutti dai baci ; non han parola i volti ingialliti, gli occhi cerchiati di nero, i corpi consunti, ma rianimati sempre da una fiamma rinascente; non han parola le convulsioni spa- smodiche , le allucinazioni , le estasi dolorose. Altrimenti, storie meravi- gliose e drammatiche sarebbero nar- rate al mondo; altrimenti, noi sa- DONNA REGINA. 157 premino tutta la vita delle tre sorelle ; altrimenti, noi sapremmo il giorno che fini la loro tortura. Ma il giorno, che importa? Sap- piamo noi se dopo non si ami ancora ! Finisce, forse, T amore ? Noi non pos- siamo, non possiamo segnare il suo ultimo giorno, né. la sua ultima parola. LU MUNACIELLO. (LCOOCMOA BOROHBtB) Lja quale istoria fu cosi. Neil' anno 1445 dalia Fruttifera Incarnazione, regnando Alfonso d'Aragona, una fanciulla a nome Catari nella' Frezza, figlia di un mercatante di panni , si innamorò di un nobile garzone, Ste- fano Mariconda. E come è usanza d'amore, il garzone la ricambiò di grandissimo affetto e di rado fu vista coppia d' amanti, egualmente inuamo* rata, egualmente fedele. E ciò non senza molto loro cordoglio, poiché per la disparità delle nascile, che proibiva 11 — Legènde Xapoi etane. 162 LU MUNACIELLO. loro il nodo coniugale, grande guerra ferveva in casa Mariconda contro Stefano — e Catarinella, in casa sua, era con ogni sorta di tormenti dal padre e dai fratelli, torturata. Ma per tanto e continuo dolore, che si può dire gli amanti mangiassero ve- leno e bevessero lagrime, avevano ore di gioia ineffabile. A tarda not- te, quando nei chiassuoli dei Mer- canti, non compariva viandante veruno Stefano Mariconda, avvolto nelPoscuro mantello, che mai sempre protesse ladri ed amanti^ penetrava in un an- dito nero ed angusto, saliva per una scala fangosa e dirupata, dove era facile il pericolo della rottura del collo, riesciva sopra un tetto e di là scavalcando, terrazzo per terrazzo, con una sveltezza ed una sicurezza che amore rinforzava, arrivava sul LU MUNACIELLO. 163 terrazzino, dove lo aspettava, tremante dalla paura, Gatarineila Frezza. Lettor mio, se mai fremesti d' amore, imma- gina quei momenti e non chiederne descrizione alla debole penna. Ma in una notte profonda, quando più alle anime loro si schiudeva la celestiale beatitudine del paradiso, mani tradi- trici afferrarono Stefano alle spalle, e togliendogli ogni difesa, dalla fer- riata lo precipitarono nella via, men- tre Catarinella gridando e torcendosi le braccia, s' aggrappava ai panni degli assassini. Il bel corpo di Ste- fano Mariconda giacque, orribilmente sfracellato, nella fetida via, per una notte ed un giorno: fino a che lo raccolse di là la pietà dei parenti, dandogli onorata sepoltura. Ma invero fu quella morte ignobilmente violenta: •e perchè v*è dubbio sul destino di 164 LU MUNACIELLO. queir anima, strappata dalla terra e mandata innanzi ali' Eterno carica di peccati, e perchè a gentiluomo non conviensi altra morte violenta che di spada. La Catarinella fuggi di casa, pazza dal dolore, e fu piamente ricoverata in un monastero di monachelle. In un giorno, quando ancora il tempo asse- gnato dalla ragion divina e dalla ra- gion medica, non era scorso, ella dette alla luce un bimbo piccino, piccino, pallido e dagli occhi sgomentati. Per pietà di quel piccolo essere, le suore lasciarono la madre nutrirlo e curarlo. Ma col tempo che passava, non cre- sceva molto il bambino e la madre, cui rimaneva confitta nella mente la bella ed aitante persona di Stefano Mariconda, se ne crucciava. Le suore la consigliarono di votarsi alla Ma* LU MCNACIKLLO. 165 donna, perchè desse una fiorente salute al bambino; ed ella votossi, e fece indossare al bimbo un abito nero e bianco, da piccolo monaco. .Ma ben altro aveva disposto il Signore nella sua infinita saggezza e la Catarinella non s' ebbe la grazia chiesta. Il figliuoletto suo, crescendo negli anni, non crebbe che pochissimo nel corpo e fu simile a quei graziosi nani di cui si allietano molte corti di sovrani potenti. Sibbene, ella continuò a vestirlo da piccolo monaco; onde è che la gente chiamava, in suo volgare, i} bambino: lu munaciello. Le mona- che lo amavano, ma la gente della via, ma i bottegai delle strade Armieri, Lanzieri, Cortellari, Taffettanari, Mer- canti, si mostravano a dito il bambino troppo piccolo, dalla testa troppo grande e quasi mostruosa, dal volto 166 LU MUXACIELLO. terreo, in cui gli occhi apparivano anche più grandi, anche più spaven- tati, dair abituccio strano: e talvolta lo ingiuriavano, come fa spesso la plebe, contro persona debole ed inerihe. Quando lu munaciello passava innanzi la bottega dei Frezza, zii e cugini uscivano sulla soglia e (^rli scagliavano le imprecazioni più orribili. Non è dato a me indagare, quanto compren- desse lu munaciello degli sgarbi e delle disoneste parole che gli veni- vano dirette, ma è certo che egli riedeva alla madre pensoso e melan- conico. A volte un lampo di collera gli balenava negli occhi e allora la madre lo faceva inginocchiare egli dettava le sante parole deir orazione. A poco a poco in quei bassi quar- tieri, dove egli muoveva i passi, Si divulgò la voce che lu munaciello LU MUNACIELLO. 167 avesse in sé qualche cosa di magico, di sovrannaturale. Ad incontrarlo, la gente si segnava e mormorava parole di scongiuro. Quando lu munaciello portava il cappuccetto rosso che la madre gli aveva tagliato in un pez- zetto di lana porpora, allora era buon augurio; ma quando il cappuccetto era nero, allora cattivo augurio. Ma come il cappuccetto rosso compariva molto raramente, lu viunaciello era bestemmiato e maledetto. Era lui che attirava V aria mefi- tica nei quartieri bassi, che vi por- tava la febbre e la malsania ; lui che, guardando nei pozzi, guastava e fa- ceva imputridire V acqua j lui che, toccando i cani, li faceva arrabbiare, lui che portava la mala fortuna nei negozi ed il caro del pane ; lui che , spirito maligno, suggeriva al re nuovi lO'^ LV MUXACIELLO. balzelli. Appena lu munadello scan- tonava, a capo basso, con T occhio diffidente e pauroso, correndo, o na- scondendosi fra la folla, un coro di maledizioni Io colpiva. Il fango della via, che gli scagliavano veniva a insu- diciargli la tonacella; le bucce delle frutta troppo mature lo ferivano nel volto. Egli fuggiva, senza parlare, ar- rotando i denti, tormentato più dalPim- potenza della picciola persona, che dal villano insulto di quella borghesia. Catarinella Frezza era morta; non lo poteva consolar più. Le monache lo impiegavano ai minuti servizi dell'or- to ; ma, anche esse, a vederlo d' im- provviso, in un corridoio, nella pe- nombra, si sgomentavano, come per apparizione diabolica. S'avvalorava il detto dalla faccia cupa del ntunaciellOj dal non averlo mai visto in chiesa, dal LU MUNACIELLO. 109 trovarlo in tutti i luoghi, a poca di- stanza di tempo. Finché una sera, lu munaciello scomparve. Non mancò chi disse, che il diavolo lo avesse portato via pei capelli, come è solito per ogni anima a lui venduta. Ma per fede one- sta di cronista, mi è d'uopo aggiungere che furono molto sospettati, e forse non a torto, i Frezza d' aver malamente strangolato lu munaciello e gittatolo in una cloaca 11 presso, da certe ossa piccine e da nn teschio grande, che vi fu ritrovato. Il discernere le cose vere dalle false, e lo speculare quale sia favola, quale verità, lascio e rac- comando specialmente alla prudenza e saggezza del lettore. Questa qui è la cronaca. Ma nulla è finito — soggiungo io, oscuro com- 170 LU MUNACIKLLO. mentatore moderno — con la morte del munaciello. Anzi, tutto è comin- ciato. La borghesia che vive nelle strade strette e buie o malinconica- mente larghe e senza orizzonte, che ignora T alba, che ignora il tramonto, che ignora il mare, che non sa nulla del cielo, nulla della poesia, nulla dell'arte; questa borghesia che non conosce che sé stessa, quadrata, piatta, scialba, grassa, pesante, gonfia di va- nità, gònfia di nullagine ; questa bor- ghesia che non ha, non può avere, non avrà mai il dono celeste della fantasia, ha il suo folletto. Non è lo gnomo che danza sulP erba molle dei prati, non è lo spiritello che canta sulla riva del fiume ; è il maligno folletto delle vecchie case di Napoli, è lu munactello. Non abita i quartieri aristocratici di Ghiaia, di S. Perdi-: LU MUNACIELLO. 171 nanclo, del Ghiatamone, di Toledo non abita i quartieri nuovi di Mer- gellina, del rione Amedeo, di via Sal- vator Rosa, di Capodimonte: la parte ariosa, luminosa e linda della città, non gli appartiene. Ma per i vicoli che da Toledo portano giù, per le tetre vie dei Tribunali e della Sa- pienza, per la triste strada di Foria, per i quartieri cupi e bassi di Vicaria, di Mercato, di Porto e di Pendino, il folletto borghese estende Plncontra- stàto suo regno. Dove è stato vivo, s' aggira come spirito; dove è apparso il suo corpo piccino, la testa grossa, la faccia pàllida, i grandi occhi lucenti, la to- nacella nera, la pazienza di lana bianca ed il cappuccetto nero, li ri- compare, nella medesima parvenza^ pel terrore delle donne, dei fanciulli 172 LU xMUNAClELLO. 6 degli uomini. Dove lo hanno fatto soffrire, anima sconosciuta' e forse grande in un corpo rattrappito, debole e malaticcio, là egli ritorna, spirito malizioso e maligno, nel desiderio di una lunga ed insaziabile vendetta. Egli si vendica epicamente, tormen- tando coloro che lo hanno tormentato. Chiedete ad un vecchio, ad una fan- ciulla, ad una madre, ad un uomo, ad un bambino, se veramente questo munaciello esiste e scorazza per le case e vi faranno un brutto volto, come lo farebbero a chi offende la fede. Se volete udirne delle storie, ne udrete; se volete averne dei documenti autentici, ne avrete. Di tutto è capace il munaciello .... Quando la buona massaia trova la porta della dispensa spalancata, la vescica dello strutto sfondata, il vaso LU MUNACIKLLO. 17;ì deirolio riverso e il prosciutto ad- dentato dal gatto, è senza dubbio la malizia del munaciello, che ha schiusa quella porta e cagionato il disastro. Quando alla serva sbadata cade di mano il vassoio ed i bicchieri vanno in mille pezzi , colui che V ha fatta incespicare, è proprio lui, Io spi- ritello impertinente ; è lui che urta il gomito della fanciulla borghese, che lavora air uncinetto e le fa pungere il dito; è lui che fa traboccare il brodo dalla pentola ed il caffè dalla cogoma ; è lui che fa inacidire il vino nelle bottiglie ; è lui che dà la ietta- tura alle galline, che ammiseriscono e muoiono ; è lui che spianta il prez- zemolo, fa ingiallire la maggiorana e rosicchia le radici del basilico. Se la vendita in bottega va male, se il superiore air uffìzio fa una rime- 174 LU MUNACIELLO. nata , se un matrimonio stabilito si disfa, se uno zio ricco muore, lasciando alla parrocchia, se al lotto vien Aiori 34, 62, 87 invece di 35, 61, 88 è la mano diabolica del folletto, che ha preparato queste sventure grandi e piccole. Quando il bambino grida, piange, non vuole andare a scuola, scalpita, corre, salta sui mobili, rompe i vetri e si graffia le ginocchia, è il muna" dello che gli mette i diavoli in corpo ; quando la fanciulla diventa pallida e rossa senza ragione , s' immalinconi- sce, sorride guardando le stelle , so* spira guardando la luna, e piange nelle tranquille notti di aucunno, è il munaciello che le guasta cosi la vita ; quando il giovanotto compra cravatte irresistibili, mette il profumo nel faz- zoletto, e si fa arricciare i capelli. LU MUNACIICLLO. 175 rincasa a tarda notte, col volto pallido e stanco , gli occhi pieni di visioni , r aspetto trasognato , è il munaciello che turba la sua esistenza ; quando la nQoglie fedele si ferma, a guardar troppo il profilo aquilino ed i mu- stacchi biondi del primo commesso di suo marito e nelle fredde notti invernali, veglia, con gli occhi aperti nel vuoto e le labbra che invano tentano mormorare la salvatrice -4t?^m- mariUj è il munaciello cheJa tenta, è il diavolo che ha preso la forma del munaciello \ è il diavoletto che dà al marito il vago desiderio di dare un pizzicotto alla serva Maria-Francesca; è il folletto che fa cadere in convul- sioni le zitellone isteriche. £ il mu- naciello che scombussola la casa , disordina i mobili , turba i cuori , scompiglia le menti , empiendole di 17() LU MUNACIELLO. paura. É lui , lo spirito tormentato e tormentatore, che porta il tumulto nella sua tonacella nera, la rovina nel suo cappuccetto nero. Ma la cronaca veridica lo dice , o buon lettore : quando il munaciello portava il cappuccetto rosso , la sua venut-i era di buon augurio. É per questa sua strana mescolanza di bene e di male, di cattiveria e di bontà, che il munaciello è rispettato, temuto ed amato. É per questo che le fan- ciulle innamorate si mettono sotto la sua protezione, perchè non venga sco- perto il gentile segreto ; è per questo che le zitellone lo invocano a mezza- notte, fuori il balcone, per nove giorni, perchè mandi loro il marito, che si fa tanto aspettare; è per «luesto che il disperato giuocatore di lotto gli fa Io scongiuro tre volte, per averne i nu- UT MUNACIKLLO, 177 meri sicuri ; è per questo che i bam- bini gli parlano, dicendogU di portar loro i dolci ed i balocchi che deside- rano. La casa dove il munaciello è apparso , è guardata con diffidenza , ma non senza soddisfazione; la persona che, allucinata, ha visto il folletto , è guardata compassionevolmente , ma non senza invidia. Ma colei che Io ha* visto — apparisce, per lo più, a fan- ciulle ed a bimbi — tiene per sé il prezioso segreto, forse apportatore di fortuna. Infine il folletto della leg* genda, rassomiglia al munaciello della cronaca napoletana : è , vale a dire , un^ anima ignota, grande e sofferente in un corpo bizzarramente piccolo, in un abito stranamente simbolico; un'a- nima umana , dolente e rabbiosa ; un'anima che ha pianto e fa piangere; che ha sorriso e fa sorridere ; un 12 -> Lfggendt Xapoletane. 178 LU MUXACIELLO. bimbo che gli uomini hanno torturato ed ucciso come un uomoj un folletto che tormenta gli uomini come un bam- bino capriccioso y e li carezza^ e li consola, come un bambino ingenuo ed innocente. IL DIAVOLO DI MERGELLINA. Assisa innanzi allo specchio , ella lasciava che la sua acconciatrice pas- sasse il pettine nella ricchezza dei cap- pelli d'un biondo fulvo , di un colore acceso e voluttuoso. Si guardava at- tentamente nello specchio: sul volto di una candidezza abbagliante , che parea fosse fulgido , non compariva traccia di roseo; nei grandi occhi glauchi y cristallini , il lampo dello sguardo era verde e freddo ; le labbra carnose, rosse, come il granato , do* ▼evano essere dolcir ed amare, quanto 182 IL DIAVOLO DI MERGELLINA. il frutto che ricordavano : il collo su- perbo, pieno e rotondo, palpitava len- tamente. Ella si guardò le mani at- traverso la luce, mani candide quanto il viso; si guardò le braccia sode e rosate, come un frutto maturo in cui si possa mordere. Si trovava seducente, bellissima; ed un ironico sorriso le sfiorò le labbra. Ella si adorava ; ido- latrava la propria bellezza e vi abbru- ciava ogni giorno un copioso incenso, che si univa a quello di tutti coloro che V amavano. — Una lettera per madonna Isabella — disse un paggio ricciuto, inchi- nandosi e porgendo il viglietto sopra un vassoio d' argento. Madonna Isabella scorse la lettera. Messer Diomede Carafa le scriveva ancora d'amore, una lettera piena di fuoco, che a volte scoppiava neir im- IL DIAVOLO DI MERGELLIXA. 183 peto della disperazione , a volte si allentava e s' illanguidiva nelle diva- gazioni di una mestizia inguaribile. Messer Diomede Carafa sapeva amare : la sua anima nobile ed eletta era aperta a tutte le squisite sensibilità dell' aflfetto, la sua forte anima com- prendeva tutti gli slanci di una pas- sione umana e potente; le orgogliose dame spagnuole della Corte vicereale, avrebbero volentieri abbandonato la loro fierezza castigliana p^r esser amate da lui e per amarlo ; le fan- ciulle deir aristocrazia napoletana , brune fanciulle dagli occhi azzurri , lo avrebbero amato, se egli avesse voluto amarle. Ma messer Diomede non amava che madonna Isabella, che aveva fama di donna crudele e disa- morata; diffatti ella non fece che sorridere appena, alle frasi amorose che messer Diomede le scriveva. 184 IL DIAVOLO DI MI^JKOELLIXÀ. • Nel grande salone del suo palazzo, madonna Isabella, vestita di broccato rosso che faceva risaltare il pallore del volto, con una reticella di perle sulle fulve treccie, sedeva a conver- sazione con messer Diomede. Il gio- vane innamorato era seduto alquanto discosto dalla sua donna, ma la (issava con r occhio intento e cupido , senza mai distogliere lo sguardo da quella figura; a seconda che la donna par- lava, sul viso del giovane, passavano onde di sangue che lo coloravano , o un terreo pallore vi si diffondeva; come il giovane si lasciava traspor- tare dair amore, la sua voce tremava, ed in essa passava la nota tenera e grave deir affetto, la vibrazione pro- fonda della gelosia , T ondulazione IL DIAVOLO DI MKRGKLLIXA. 185 indefinita della mestizia, la nota stri- dula dell' ironia , tutte le variazioni che ha V amore. La dama, placida, tranquilla, sorri- dente, agitando il leggiero ventaglio di piume, giocherellava amabilmente e ferocemente col cuore del giovane. Ella , a sua posta , creava in lui lo sconforto desolato o V inesauribile speranza, la cupa gelosia o V estrema fiducia, la collera senza nome e senza limiti la gioia senza confine/Abituata a questi sottili e malvagi godimenti , «Ila si compiaceva stringere quel cuore innamorato in una mano di ferro, che lo soffocava a poco a poco e poi a ridonargli la vita, carezzandolo con una mano leggiera e vellutata; si dilettava far sussultare di dolore quel- la anima, gittandola bruscamente nella disperazione; gioiva, facendola esalta- 18G IL DIAVOLO DI MERGELLINA, re grado a grado, sempre più, fino a farla impazzire, nella vertigine dell'al- tissimo pinnacolo. Furono tali donne^ sono e saranno. Il mondo le maledice, le disprezza, paiono fatte estranee alla soave comunanza femminile, paiono odiate, esecrate. Ma il mondo le ama, ma r uomo le ama. Cosi è, sempre , cosi, sempre, sarà. Pace a voi, giova- nette gentili, dalle anime buone che rischiarano come luce di lampada familiare, il corpo delicato; pace a voi, donne, cui il destino unico è T amore, è il sagrifizio : giammai sarete amate, come quelle donne lo saranno. Virtù, dolcezza, abnegazione, serenità, calma, sono vani nomi : V acre e malsano desiderio delT uomo corre verso la misteriosa e temuta sirena. Pace a voi : amate, soffrite, morite : giammai sarete amate, come quelle donne Io saranno. IL DIAVOLO DI MERGELLINA. 187 Eppure fu un giorno in cui Diomede Carafa credette d' arrivare al culmine inaccessibile della sua vita , al mo- mento fatale in cui ogni facoltà, ogni potenza fisica, ogni luce di ragione, ogni festa di fantasia, ogni robustezza di fibra , si riuniscono in una sola , profonda, alta armonia, che è l'amore. Fu il giorno in cui madonna Isabella, all'impensata, dopo una. lotta d' un anno in cui essa non aveva ceduto d*una linea sola, presa da un subi- taneo abbandono e dominata da una strana causa , disse d' amarlo. Oh ! chi ha amato, la conosce quella stagione calda ed esuberante, colorita dal sole, neir azzurro sconfinato , nell' infiam- mato meriggio dove tutto arde e si consuma in una grande voluttà, quando 188 IL DIAVOLO DI MKROKLLIXA. i fiori nascono presto, vivono una vita rapida e soverchiante, esalano profumi grevi e violenti e muoiono, per aver troppo vissuto,- la stagione fremente, dove tutto è luce , tutto è fulgore , tutto è febbre che precipita il sangue ; la benedetta stagione, la eccelsa sta- gione, dopo la quale tutto è cenere e fango. Chi ha amato , sa la stagione d'amore di Diomede Carafa, e non aspetta dalla scialba parola del freddo e scorato cronista una descrizione. Chi ha amato, evochi tutti, tutti i suoi ricordi d' amore, riviva in quel pas- sato, pieno di una gioia e di un dolore che non hanno l'eguale, palpiti, s'agiti, abbia la convulsione ed il delirio di quell'amore e saprà di Diomede Carafa. Le storie d' amore non si raccontano, non si descrivono, che miseramente: r arte istessa, la divina arte che tutto IL DIAVOLO 1)1 MKKOKLLINA. 1S9 scopre, tutto rivela, non può cbe dare una sola e fuggevole immaginazione dell' amore. Breve stagione. Se durasse, il cuore morirebbe nella esagerazione di un sentimento, che è la follia. A poco a poco , con gradazioni impercettibili , madonna Isabella fu meno felice, meno innamorata; il sorriso fu più scarso sulla bocca , le braccia più liacche neir abbraccio, le labbra più gelide nel bacio, il palpito meno frequente neir arrivo e nel distacco. Diomede Carafa , cieco , pazzo d' amore , non vedeva, non comprendeva. Madonna Isabella discendeva sempre più verso r indifferenza^ che poi era il suo stato abituale e la sua naturale ferocia, ri- 190 IL DIAVOÌLO DI MERGELLINA. nasceva per la tortura di quelP uomo. Ma Diomede Carafa soffriva e s' ineb- briava di quella sofferenza, piangeva e s' ubbriaca va di quelle lagrime, era ammalato e si consolava di quel morbo ora gelido, ora infuocato che gli consumava la vita; era tormentato, oppresso , disperato , ma si estasiava di ciò, come i martiri cristiani del sangue che usciva loro dalle vene esauste. Isabella si mostrava con lui chiusa, dura, sprezzante ed egli ramava anche cosi, massimamente* cosi; Isa- bèlla si faceva volubile , leggiera , accogliendo in casa i più bei cavalieri napoletani, ed egli, morendo di gelosia, amava Isabella per la gelosia che aveva di lei. Egli gettava pazzamente i suoi averi, obbliava le prerogative dèlia sua nobiltà, non conosceva più amici, non conosceva più parentado , IL DIAVOLO DI MERGELLINA. 191 non sapeva più nulla di obblighi o di diritti: Isabella, Isabella, amare Isa- bella. Fino a che, un giorno, tutta la verità gli fu palese come parola di Dio e seppe del proprio avvilimento, seppe del tradimento di Isabella con Giovanni Ycrrusio, amico suo e suo compagno d' infanzia. • « Egli nascose a tutti il dramma del suo spirito, sdegnoso di compianto. Il crollo immenso della sua felicità, la rovina tragica e nera dello splendido ». . . edificio, non ebbero testimonio. Meglio cosi. Che vale il rimpianto ? Che cosa è la parola compassionevole e gla- ciale? Foglie morte che il vento si porta via, ed il dolore rimane eterno. Invano egli errò, viaggiatore solitario 192 IL DIAVOLO DI MERGELLINA. e noncurante, per fiorenti paesi, in- vano chiese alle ricchezze, al lusso, ad altri amor i, a feste stupende, Pobblio; invano egli volle innamorarsi delle vaghe creazioni dell'arte, per ritro- varvi la pace. Dappertutto, in ogni paese, in ogni donna, in ogni fiore, al fondo dei vini generosi, nelle figure dei quadri, nelle figure delle statue, negli ondeggiamenti della musica, egli ritrovava Isabella. Il suo dolore non era più acuto e straziante , ma leato, lungo, stupefaciente. Egli sen- tivia la sua anima gonfiarsi di afietto ed i suoi occhi gonfiarsi di lagrime; egli provava il bisogno del sagrifizio, . del culto, deir estasi — Dio, Dio! — ripetette un giorno la stanca anima sua. • IL DIAVOLO DI MKRGKLLINA. VM Diomede Carafa fu vescovo di Aria- no, prelato esemplare e amatore del- l' arte. Leonardo da Pistoia* , pittore , fu suo amico. Per sua ordinazione e per la chiesa di Piedigrotta dove giace il Sannazzaro, il Leonardo fece il quadro bellissimo di S. Michele che atterra Lucifero. Lucifero vinto, e bello e ancor folgorante, ha il volto di madonna Isabella. Ed è una donna il diavolo di Mergellina. ^^^t^^M et * ^ ^ *' 18 » Léggemd€ Ntgpoittame. MEGARIDE. Lia dove il mare del Chiatamone è più tempestoso , spumando contro le nere roccie, che sono le inattacabili fondamenta del Castello dell' Ovo, dove lo sguardo malinconico del pensatore scuopre un paesaggio triste che gli fa gelare il cuoie, era altre volte, nel tempo dei tempi , cento anni almeno prima la nascita del Cristo Redentore, una isola larga e fiorita che veniva chiamata Megaride o Megara, che significa grande, nelPidioma di Grecia. Quel pezzo di terra s^era staccato dalla 198 MBGARIDE. riva Platamonia, ma non s'era allon- tanato di molto: e quasi che il fer- mento primaverile passasse dalla col- lina alP isola, per le onde del mare , come la bella stagione coronava di rose e di fiorranci il colle, cosi risola fioriva tutta in mezzo al mare, come un gigantesco gruppo di fiori che la natura vi facesse sorgere , come un altare elevato a Flora , la olezzante dea. Nelle notti estive dall' isola par- tivano lievi concenti e sotto il raggio della luna, parea che le ninfe marine, ombre leggiere , vi danzassero una danza sacra ed inebbriante ; onde il viatore della riva, colpito dal rispetto alla divinità, torceva gli occhi allon- tanandosi, e le coppie di amanti cui era bello errare abbracciati sulla spiaggia, davano un saluto air isola e chinavano lo sguardo per non tur- M KG ARIDE. 199 bare la sacra danza. Certo V isola doveva essere abitata, nei suoi ce- spugli verdi, nei suoi alberi, nei suoi prati, nei suoi canneti, dalle Nereidi e dalle Driadi : altrimenti non sarebbe stata cosi gaja sotto il sole, cosi cele- stiale sotto il raggio lunare , sempre colorita, sempre serena, sempre pro- fumata. Era divina, poiché gli Dei r abitavano. Ma Lucullo, il forte guerriero, Ta- mico dei letterati, il primo fra gli epicurei, abituato a soddisfare ogni capriccio , amava le ville circondate da ogni parte dalT acqua : egli era mortalmente stanco della sua casa splendida di Roma, della sua villa di Baja, della sua villa di Tuscolo, della sua villa di Pompeja. Volle quella di Megaride e V ebbe. Egli violò la dimora delle ninfe oceanine, per far- 200 MiflGARIDE. sene la propria dimora ; egli volle per sé i prati, i boschetti di rose, i margini che digradavano lievemente nel mare; scacciò le sirene e vi mise le sue bellissime schiave. Fu un pianto solo per le grotte di corallo, tra le alighe verdi; e le ninfe si lamentarono con Poseidone, che non dette loro ascollo. Fu costrutta la magnifica villa, sor- sero per incanto i giardini degni di un imperatore, nei vivai diguazzarono le murene dalla brutta testa di ser- pente e dalla carne delicata, nelle uccelliere saltellarono i più rari uc- celli, pasto di stomachi finissimi : sotto i portici della villa suonarono le ce- lere e le tiorbe, in onore di Ser villa, sorella di Catone , moglie di Lucullo, bellissima fra le donne romane. Ivi danze festose , luminarie magiche , giuochi , banchetti , come solo Lu- MKOAKIDK. 201 cullo sapea darne. Ivi profumi di nardo, coppe di nitido cristallo, nel cui vino generoso si scioglievano le perle ; ivi toghe di porpora , pepli di bisso, gemme splendide, corone di rose ; T eterno cantico alia bellezza ed air amore. Ivi accorrevano per riscal- darsi alla luce degli occhi di Servilia, i giovanetti timidi che non osavano pronunziar parola dinanzi a lei, i ga- gliardi garzoni la cui parola superava d'audacia io sguardo, gli uomini mar- turi e gravi che sorridevano ancora all'amore, i vecchioni che sospiravano la gioventù ; e Servilia rideva , gio- vane e gaja, di questo incenso d'a- more , rideva sempre , lusinghiera e crudele, come una sirena: e Lucullo, placido lilosofo e ancor più placido sposo, godeva dei triontl di Servilia. Egli amava, le feste sontuose, che da- 202 MKGARIDK. rano dalla sera sino ai primi albori , i pranzi lunghissimi dove nettare s'al- terna a nettare, dove la fantasia del cuoco vince quella di un poeta e fonde nel suo crogiuolo le ricchezze di un re ; egli amava conversare coi lette- rati, cui donava vasi d'oro e animali preziosi e case e giardini, per provar loro la generosità di un privato. Ser- vilia saliva la china ridente del pia- cere ed egli discendeva , tranquillo , verso la pace della vecchiaia. Per divertirsi, faceva scavare un canale d' acqua viva, faceva elevare una pa- lazzina , scacciava lontano il mare , allargando i limiti dell' isoletta Me- garide ; Servilia si lasciava profumare dalle ornatrici , prendeva bagni di latte d'asina, portava alle gentili orecchie due pesanti perle che le laceravano la carne, le sue tuniche MEGARIDE. 203 parevano tessute d'aria^ i suoi sandali costavano prezzi favolosi : ed ella , assisa davanti alla spera di acciaio , si contemplava. Ella era nel trionfo della bellezza e della gioventù. Gli occhi ardenti di coloro che V amavano , le davano un^aureola di fuoco, in cui ella cam- minava, graziosa salamandra , senza scottarsi; i sospiri di coloro che Ta- mavanOy formavano attorno a lei una nuvola, in cui le piaceva di respi- rare. Il mare batteva dolcemente sulle sponde di Megaride e non osava tu- multuare; il sole la carezzava senza violenza e le auro leggiere ne face- vano ondeggiare i fiori ; nella placida luce lunare , V isola sembrava tutta bionda , morbida e dolce , in una infinita dolcezza d' aria e di tinte. E Servilia, distesa sul lettuccio, vestita 204 Mi':oAUii)K. di stoffa tessuta d' oro , lasciandosi sventolare dalle schiave, fremendo di piacere alla brezza marina, guardando distrattamente la ridda delle danza- trici, mormora fra sé : sono io , sono io la sirena! E Paria mormora an-^ eh' essa, dopo aver scherzato con le chiome olezzanti ; è lei, è lei la sirena. Servilia, quando solleva un fascio di fiori , è bella come Flora ; Servilia , quando sceglie in un cestello la pe- sca matura, è bella quanto Pomona ; Servilia, quando porta sui capelli ^la brillante mezzaluna e al fianco la fa- retra, è bella quanto Diana; quando, senza ornamenti, coi capelli disciolti, uscendo dal bagno, tutta stillante pro- fumi, si lascia asciugare dalle schiave •e s' avvolge nella tunica bianca, è.... — bella come Venere — su- siirra lo schiavo innamorato. nm XJKiìARIDK. 205 — Più bella di Venere — dice, col suo olimpico orgoglio, Servilia. Il che è udito dalle attente ninfe oceanine e Venere sa che Servilia r ha offesa, e Poseidone questa volta dà ascolto alla preghiera della sua bella amante. Rosicchia, rosicchia o polipo molle, rossastro, rassomigliante ad un cencio ! Incrostati, incl*ostati, ostrica, per mi- nare lo fondamenta ! Piantati,-piantati, alga, per strappar via una zolletta di terreno? Scavate, scavate, o piccoli animaletti del corallo ! Rodi la roc- cia , o costante onda marina , fa un buco coperto di arena, coperto di piante, un buco perfido, nero e pro- fondo! Rodete, rodete, piccole e pa- zienti potènze del marel Piansero lo Nereidi, piansero le Sirene, Tènere fu offesa e Poseidone è in collera. 200 MliGARlDE. Servilia ride e gorgheggia. Lucullo è alla sua villa di Tuscolo. Ella è stupenda di bellezza e la vita è un dono altissimo. La vita neir amore , nella ricchezza, nel lusso, nei piaceri più delicati , nelle follie più costose. Essere giovane, essere piena di sa- lute, essere ricca, essere felice, essere ammirata, festeggiata, amata, idola- trata — e perchè la vita salga all'ul- tima vibrazione, amare ! Ma il niare rumoreggia sordamente, la terra si scuote, un orribile scricchiolio s'ode, un grido feroce sale al cielo, le onde sorgono in tempesta , e la isola Me- paride scompare nel vortice delle acque , inghiottita con la villa, coi giardini, coi vivai, con la bellezza. Por- goglio ed il primo momento d' amore di Servilia MEGARIDE. 207 — Libiamo agli Dei infernali — disse tranquillamente Lucullo , nella sua villa di Tuscolo, al funesto an- nunziOy e sparse sul terreno alcune goccie deir inebbriante liquore. • ••••••••••••• Vuoi tu scandagliare la profondità del mare, o ardito palombaro? Sei tu stanco .delle sirene della terra ? Va sulla spiaggia brulla del Chiatamone, raccogli il tuo respiro e p;*ecipitati nelle acque : in un momento giunto al fondo, vedrai gli archi della villa, i giardini di Lucullo e la bellissima moglie, che è diventata la sirena del mare. Ma non ti lasciar sedurre dalla visione e ritorna a galla, o palombaro ardito : sulla terra troverai sirene come Servii ia, che non ti possano amare e ti facciano morire dal dolore. PROVVIDENZA, HUONA SPERANZA, ((.KCAEHDA DCl BlKBl) 14 •» Leggende Kapotetane. òono belli i bimbi napoletani e ridono e giuocano, come tutti gli altri bimbi del mondo ; ma non vogliono alla sera stare quieti sotto il lume della lam- pada, se la giovane madre, o la gentile sorellina, o la nonna dagli occhiali d'oro, o la zia che lavora di calza, non racconta loro una storia, una bella e lunga storia che faccia spalancare i loro occhioni, sino a che il sonno li faccia diventare piccoli piccoli. Sono cosi, tutti i bimbi del mondo ? Io non lo. so : io conosco solamente ì miei 212 l'ROVVIDKNZA, — ^— — — bimbi napoletani che amano le sto- rielle della sera. Vorrei essere io la madre ancora gaia come una fanciulla, la grande sorella nel cui animo di giovinetta si forma la madre, la non- nina che ricorda il suo giocondo pas- sato, la zia che non ha avuto passato d'amore, che non ha presente e la cui mano tremante di emozione si ap- poggia timidamente sul capo di bimbi non suoi : narrerei loro la storia di Provvidenza, buona speranza. La vor- ranno essi ascoltare da me, che narro grosse e cattive storielle agli uomini grandi e buoni ? I bimbi sono belli , amano le storielle e sono indulgenti col narratore V'era dunque una volta, nella nostra carissima Napoli, un uomo molto stra- no. Io non vi dico Tepoca precisa, ia cui egli visse la sua vita singolare. HUONA SPERANZA. 213 poiché a voi , bambini ridenti , non importa nulla una data, voi che avete la fortuna di obliare; poiché a voi non interessano le cifre , voi la cui vita é tutta una poesia. L'epoca io la so, poiché noi grandi abbiamo V in- felicità di sapere troppe cose inutili , di accumulare nella nostra testa tante notizie, che a nulla ci valgono — la so e non ve la dico. A voi sicura- mente interessa di più sapere come era fatto questo uomo strano , come vestiva , che cosa mangiava , quali erano le sue abitudini ed in che con- sisteva la sua tristezza. Uditemi tutti, attentamente che qui comincia il buono : questo uomo di cui vi parlo, era lungo lungo come mai uomo può essere lungo, in modo che il popolo diceva sempre che egli era cresciuto air umido e che la mamma 214 PROVVIDKNZA, ^— — *— ^^^1^»»— — i— — B*^^— M— — 1*— *»*«i— ■ I I I ■ I I MI — — — — — ^1^— — — MPI^^H— — ^— — I ■ I ■■■■■■■— i—i——^ aveva avuto gran cura ad inafflarlo, perchè crescesse, quasi che egli fosse un alberetto e non un uonao, L' uomo lungo era anche molto magro , con certe gambe che ballavano nei calzoni, come un manico d' ombrello in un fodero troppo largo, con certe braccia che sembravano due sottili aste di mulino, sempre in moto. I mulini li avrete visti, nevvero? Si? Va bene; tiro innanzi. L^ uomo lungone magro non era molto vecchio, poiché aveva tutti i capelli neri senza un filo bianco e gli occhi suoi , bruni come il carbone , brillavano come quelli di un giova- notto, ma la pelle del viso era gialla come la cartapecora dei libri di vo- stro nonno e si piegava tutta in mille rughe ; il collo , in cui i tendini erano salienti, rassomigliava alla zam- lUIONA SPKKANZA. 215 pa secca di una gallina morta. Egli era vestito sempre di nero , con certi pantaloni lucidi dal grande uso, troppo corti alla gamba, lasciando scoperti gli scarponi di vitello e le calze bucate; aveva un lungo soprabito, le cui falde svolazzavano , che gli si adattava male alla vita , alle spalle , al collo , di cui il primo bottone era sempre ficcato nel secondo occhiello, e cosi di seguito. Portava al collo come cravatta, un fazzoletto bianco ; in testa un cappellaccio, rosso dalla vergogna, tutto ammaccature e sas- sate ; in mano un bastone nodoso, dal pomo grosso come quello di un capo- tamburo. Questo uomo non si sapeva da nessuno chi fosse, donde venisse , dove andasse; ma tutti lo conoscevano, poiché il giorno e la notte girava per le strade di Napoli, figura allampanata 216 PROVVIDI^NZA, e fantastica che al lume dei lampioni assumeva proporzioni inverosimili, ed alla luce del sole, pareva uno spettro che avesse smarrita Ja via del cimitero. L' uomo si fermava a tutte le porte, si fermava sotto tutti i balconi e metteva fuori il suo grido, aspettava un momento , poi andava via. Egli conosceva tutte le case dove erano bambini e arrestandosi li sotto , gri- dava, con la sua voce stridula : Prov^ videnza! allora il bambino veniva, sa- lutava Tuomo e gli dava una monetina, un frutto, o un pezzo di pane. Egli conosceva bensì tutte le case dove non erano bambini e vi si fermava sotto, gridando: Buona 6^peranza! La sua voce suonava come un augurio e tutti coloro che hanno il desiderio dei figli , tutti coloro che li aspet- tano, tutti coloro che amano i bimbi. BUONA SI»KUAXZA. 217 davan Telemosina al mendicò. Solo i cuori duri, quelli che sono egoi- sti, che non hanno mai voluto bene ad alcuno, non gli davano nulla; il mendico ne conosceva le case e non vi si fermava. Egli, tra il frastuono dei carri, delle carrozze, dei mestieri rumurosi, dei venditori che strillano il prezzo della merce, gittava sempre il suo grido alto , a tutti superiore : Provvidenza, buona sj)eranza! Lo si udiva dalle cantine profonde , dalle soltìtte altissime , dai giardini , dalle terrazze : il suo grido metteva allegria. Il povero ammalato che confitto nel letto, guarda volare le mosche, conta i fiorami delle pareti ed i travicelli del tetto y sentiva volentieri quelle parole, che dalla via pareva gli dessero promessa di una pronta guarigione : Provvidenza^ buona sj^eranza! V ope- 218 l'UOVViDENZA, raio che nella sua bottega, nei calori soffocanti dell'estate, suda a tirare la sega su e giù, si rialza più vigo- roso, quasi animato da una vaga fiducia che il lavoro diventi meno duro, il padrone meno esigente ed il pane meno caro: Provvidenza, buona speranza/ La madre solitaria che di notte agucchia presso il tavo- lino, al lume temperato di una lam- pada e pensa al figliuolo marinaio, imbarcato su una nave, che viaggia nei lontani mari del Giappone, e trema al soffio del vento, e ha gli occhi pieni di lagrime allo scroscio della pioggia, sorrideva a quella voce che neir ombra le diceva di sperare : Provvideìiza, buona speranza! Ma il mendico singolare che non parlava mai deir elemosina, s' intrat- teneva volentieri coi bimbi di Napoli, BUONA Sl'KKANZA. 219 ne conosceva dappertutto, ne sapeva i nomi e talvolta i piccoli segreti. Nella strada di S. Lucia dove i bimbi sono scuri , magri e nervosi, rassomi- gliando ai pesciolini svelti del mare, egli si fermava a guardare i tonfi che fanno nel mare, animandoli con la voce, agitando il bastone, eccitando i più bravi, applaudendo ai salti mi- gliori : i bimbi salivano a ridere con lui, soffregandosi alle sue lunghe gambe, mentre a lui un risa bonario spianava le rughe e rischiarava il volto. Nei quartieri nobili di Chiaja, di Toledo, della Riviera, egli guardava lungamente i bimbi vestiti di velluto e di trine, coi riccioli ben pettinati, gli stivalini nuovi fiammanti, le ma- nine inguantate, che vanno a passeg- giare in carrozza, o guidati dalla 220 PROVVIDENZA, mamma: i bei bimbi non avevano paura né ribrezzo del mendico e tal- volta gli davano un confetto, o un pezzettino di cioccolatto che egli che nessuno aveva mai veduto a man- giarne, divorava con una delizia sor- ridente, coi capo riverso indietro, con gli occhi lucidi di contentezza, Nei quartieri bassi del Pendino e del Mercato, dove i bambini sono pallidi e malaticci pel cattivo aere, pel cibo di frutta acerbe, egli, di na- scosto, dava loro dei soldetti e fug- giva via con le sue lunghe gambe, gridando ed agitando il bastone. Su pei giardini delie colline dove i bimbi sono floridi di ciera, hanno i capelli gialli pel «ole ed i piedi nudi nella polvere, egli li chiamava a frotte intorno a sé, faceva le capriole, si buttava per terra come un pazzo e BUONA SPERANZA. 221 se li faceva camminare sulle gambe» sulla pancia, sullo stomaco, ridendo e strillando, poi ne agguantava un paio, li baciava disperatamente e scappava via per le viottole, simile ad uno spaventa passeri. Di notte girava per le vie della città, dietro ai bimbi che cercano i mozziconi dei sigari e tastando in terra col bastone» coi suoi occhi di gatto che bucavano l' oscurità, ne trovava anche lui dei mozziconi e li buttava tacitamente nel cestino del piccolo trovatore \ si fermava sulle soglie delle chiese dove giacciono in terra a dormire, arroton* date come cani, tante miserabili cre- aturine senza tetto, e sollevandole, se ne metteva un paio col capo in grembo, coprendole con le falde del suo soprabitone, rimanendo immobile» al freddo, seduto sugli scalini, guar- 222 PROVVIDKNZA, dando i ricchi e gli agiati che rin- casano e vanno a baciare i bimbi, che dormono nel calduccio del lettic- ciuolo. Provvidenza^ buona speranza. andava al mattino ed al pomeriggio sulla porta delle scuole a vedere i bambini» che vanno o escono dalla scuola; negli otto giorni di ogni anno, in cui Tospizio deir Annunziata è aperto al pubblico, il mendico pas- seggiava gravemente nelle sale mi^ rando i trovatelli, parlando loro, baciucchiandoli, palleggiandoli e can- ticchiando loro misteriose canzoni. Era singolare come il mendico inten- desse il linguaggio fatto a balbettii dei piccini piccini e le domande in- coerenti dei più grandetti, ed i bimbi comprendevano lui, che non era com- preso dagli uomini. Una notte Prov^ videnza, buona spei^anza scomparve BUONA Sl'KRANZA. 223 e non si seppe più nulla di lui , né più fu visto. Un ortolano del colle di Capodimonte narrò di averlo visto , nella notte, sopra un masso, disperarsi, salutare, mandar baci alla città im- mersa nel sonno , buttarsi per terra col capo nella polvere , piangere , strapparsi i capelli , poi rialzarsi e partire. Quelli che lo conoscevano, si di- spiacquero di non vederlo più, di non udire quel suo grido che rallegrava : i bimbi di Napoli ci pensarono un par di volte, e più altro. Fu detto poi che Provvidenza, buona speranza era un grande medico di un paese lontano come la Svezia , la Norvegia o \k Danimarca, che si fosse fatto amare dall'unica figliuola del re, T avesse sposata segretamente e ne avesse avuto un bellissimo bambino — che il re» 224 l'KOVVIDKNZA, KDC. saputo il fatto, fosse montato in una grande collera , avesse esiliato per sempre il medico, carcerata la llgliuola in un appartamento e messo a balia il bimbo — che il re vecchio morto , il mendico fosse chiamato accanto al re nuovo, suo cognato, a prendere il suo posto a corte , presso la moglie ed il figlio. Fu detto questo , ma in Napoli fra le madri ed i figliuoli, fra i bimbi ed i popolani^ è rimasta tra- dizionale la figura di Provvidenza , buo7ia .speraìiza e l'annuncio del suo arrivo serve ancora a calmare gli strilli dei piccoli impertinenti , ad asciugare le lagrime dei piagnolosi ed a far addormentare quelli troppo vivaci che hanno la pessima abitudine di vegliare tardi , senza sapere che il sonno I bimbi dormono. IL CRISTO MORTO. 16 — Leggende Kapoi^iame» YHf^m JLa cappella è glaciale. Pavimento di marmo, marmo alle pareli, tombe di marmo, statue di marmo. Un. marmo scuro, che ha preso una tinta mala- ticcia ed umida pel tempo che è tra- scorso, pel sole che manca, per la scialba luce che piove dalle vetrate. Non ornamenti di oro, non candelabri, non lampade votive, non fiori : invece fregi, ornamenti, mosaici, iscrizioni, palme, volute, capitelli in pietra bian- ca, grigia nera, non altro che pie- tra. Tutto vi è gelido, tranquillo. 228 IL CRISTO MORTO. ♦.' I 1 serenamente sepolcrale. Altrove, è vita la voce del prete che prega, la tenue liammella dei cerei , lo squillo del campanello, lo scricchiolio di una sedia, il fumo sottile delP incenso : qui non si prega, non ardono lumi, non sono sedie, non sono campanelli, non fumano incensi. Non si vive per pregare : si muore nello sfinimento della preghiera che s' arresta sulle fredde labbra. Non è una chiesa, è una tomba. — Volete vedere il Cristo morto ! — chiede la guida con la sua voce strascicata. Quella voce umana , volgare mi scuote. Eppure, mi parla ancora di morte. — Vediamo prima la cappella — mormoro, quasi vergognandomi di parlare. IL CRISTO MORTO. 229 Coloro che vi giacciono, queti ed immobili, le braccia in croce sul cuore morto, appartengono alla nobilissima fra le famiglie; Grandi di Spagna di prima classe, due volte principi, due volte duchi, tre volte conti, cinque o sei volte marchesi. Sulla porta di en- trata è la tomba dell' antichissimo antenato, che andò alle Crociate; fe- rito e svenuto in un combattimento, fu creduto morto e portato a seppel- lire, ma risvegliatosi